Le voyage est un élément caractéristique de l’expérience de vie et de foi de saint Dominique. Nous proposons un itinéraire qui, en suivant le tracé de l’ancienne Via Francigena de Rome à Bologne, suit les traces laissées par saint Dominique lors de son dernier voyage.
C’est une invitation à se découvrir en tant que voyageur, pèlerin, vagabond, ayant besoin de mettre ses propres pas dans le mouvement qui habite notre moi intérieur, de lui donner de la chair ou simplement de l’assumer, d’en prendre conscience. Il s’agit de découvrir que l’on est déjà en voyage et que celui-ci – notre propre voyage – demande à être accompagné par l’esprit et le cœur. Comme l’a fait Dominique lorsqu’il a traversé la moitié de l’Europe à pied.
Nous vous invitons à entreprendre ce pèlerinage virtuellement, en suivant les étapes proposées ci-dessous, mais aussi à vous lancer réellement dans votre voyage lorsque la situation sanitaire le permettra.
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Intorno al 1219, Domenico si stabilì a Roma, città in cui si dedicò alla fondazione di un monastero di monache e portò a compimento il processo della fondazione dell’Ordine. Il suo ultimo viaggio lo portò a Bologna nel 1221, dove morì il 6 Agosto dello stesso anno. Domenico fu un uomo di preghiera e di predicazione. Attinse le sue forze dalla contemplazione della verità di Dio e trasmise agli altri la propria fede. Dissero di lui i suoi contemporanei: “Parlava sempre con Dio o di Dio”.
Il pellegrinaggio proposto segue idealmente quest’ultimo viaggio di san Domenico e invita a meditare i diversi aspetti della sua vita e della sua spiritualità che hanno formata l’Ordine da lui fondato. I testi che illustrano questo pellegrinaggio, narrazioni dei suoi contemporanei o di coloro che hanno lasciato la loro testimonianza degli anni iniziali dell’Ordine, vogliono essere degli impulsi per poter legare alcuni momenti della vita di S. Domenico ai luoghi ancora visibili e a quelli oggi distrutti o modificati fino all’irriconoscibilità.
Oltre ad un primo viaggio che Domenico aveva fatto a Roma intorno gli anni 1205 o 1206, giunse per la seconda volta nella città eterna nel 1215.
Dopo aver incontrato i catari durante il suo viaggio con Diego d’Acebo verso il nord Europa Domenico si era stabilito nella Francia del Sud predicando soprattutto ai catari ai quali si sapeva mandato in modo particolare. I frati che l’hanno conosciuto concordano che egli soffriva veramente di vedere tante persone allontanarsi dalla verità del Vangelo. Era pieno di compassione per quanti seguivano questa strada sbagliata che – e per questo il santo si commosse fino alle lacrime – li avrebbe allontanati anche dalla salvezza eterna. Nel corso degli anni che aveva trascorso nella Linguadoca aveva fondato un monastero per donne catare pentite a Prouille e anche una comunità di predicatori a Tolosa. Ma questa comunità non poteva rimanere un piccolo gruppo approvato dal solo vescovo di Tolosa. Domenico aveva la visione di un’opera più grande, un vero Ordine di Predicatori che potevano proclamare la Parola di Dio in ogni città, ogni diocesi e ogni paese. Nel 1215 aveva l’occasione nuovamente di tornare a Roma accompagnando il suo vescovo Fulco al Concilio Lateranense IV. Così avrebbe avuto la possibilità di presentare il suo progetto a papa Innocenzo III.
Giovanni in Laterano
Il Laterano divenne per Domenico il luogo più importante dei due soggiorni a Roma che sono legati alla conferma dell’Ordine. Qui risiedeva il papa, qui si radunavano i padri conciliari e qui avrebbe conosciuto uno dei suoi sostenitori e amici più importanti della curia romana, il vescovo di Ostia, cardinal Ugolino, il futuro papa Gregorio IX. Al Laterano fu ricevuto da papa Innocenzo III per la prima presentazione del nuovo Ordine. Ma purtroppo l’udienza non ebbe l’esito da lui sperato. Scrive Giordano di Sassonia, il suo successore alla guida dell’Ordine:
“Fra Domenico si accompagnò al predetto Vescovo per andare con lui al Concilio e con pari desiderio pregare Papa Innocenzo che confermasse a Fra Domenico e ai suoi compagni quell’Ordine che doveva essere di nome e di fatti un Ordine di Predicatori (…) Ma, ascoltata la loro richiesta, il Romano Pontefice esortò Fra Domenico a ritornare dai suoi Frati per scegliere di comune accordo, dopo avere con essi discusso della cosa, una delle Regole già approvate (…) ciò fatto, Fra Domenico avrebbe dovuto tornare dal Papa per ricevere la conferma di tutto”.[1]
Da un lato il Concilio Lateranense IV si era dichiarato in maniera chiara contro gli insegnamenti dei catari e albigesi e aveva confermato che “uno, dopo aver ricevuto il battesimo, è nuovamente caduto nel peccato, può sempre riparare attraverso una vera penitenza”[2]. Il Concilio aveva addirittura riconosciuto che “tra le altre cose che riguardano la salvezza del popolo cristiano, si sa che il nutrimento della Parola di Dio, è tra i più necessari”[3] e che per questo “i vescovi scelgano persone adatte ad attendere perciò saltuariamente all’ufficio della santa predicazione”[4]. Presentando il suo Ordine Domenico aveva proposto proprio questo, solo che egli non pensava alla predicazione come un’attività alla quale i frati attendessero saltuariamente ma una alla quale si dedicassero con tutta la loro vita. Dall’altro lato lo stesso Concilio aveva proibito per “l’eccessiva varietà degli ordini religiosi (…) che in futuro si fondino nuovi ordini. Chi quindi volesse abbracciare una forma religiosa di vita, scelga una di quelle già approvate.”[5]
Il racconto di Giordano, che compila il suo libellus, il libretto sugli inizi dell’Ordine, intorno al 1233, riassume in maniera generica che cosa era accaduto a Roma. Forse possiamo scorgere fra le righe anche un accenno allo scetticismo del papa che rimandava l’approvazione dell’Ordine a un prossimo incontro, basandosi sui canoni del Concilio circa le nuove fondazioni di comunità religiose. Costantino da Orvieto che compilava una delle prime leggende di S. Domenico introno al 1246 racconta che il papa si convinse solo dopo aver sognato
“che la chiesa del Laterano avesse disciolte tutte le sue congiunture, e così mostrava di fare grande ruvinamento subitamente. La qual cosa veggiendo elli con grande tremito piangendo, dall’altra parte soccoreva il servo di Dio messer santo Domenico, e co le spalle sue sosteneva tutto quel dificio che voleva cadere”[6].
Comunque sia, Domenico tornò a Tolosa alla fine del 1215 o ai primi del 1216, si consultò con i frati e insieme scelsero, come testimonia Giordano, “senza esitazione la Regola di quel grande predicatore che fu sant’Agostino”[7]. L’affermazione di attribuire la scelta della regola all’importanza che sant’Agostino ebbe come predicatore non lascia dubbi che già dal primo momento dell’esistenza dell’Ordine il suo scopo veniva evidenziato. Domenico e i suoi frati non volevano essere religiosi come tanti altri ma predicatori, uomini evangelici che vivessero la Parola di Dio come elemento essenziale della loro vita.
Dopo il soggiorno in Francia Domenico si mise nuovamente in cammino verso Roma. Il 16 luglio 1216 era morto Innocenzo III ma il conclave aveva eletto solo due giorni più tardi il suo successore, il cardinale Cencio[8] che si impose il nome di Onorio III. Il nuovo papa seguiva la linea del suo predecessore e quando Domenico lo incontrò “ottenne piena conferma, secondo i suoi desideri e l’idea da lui concepita, dell’Ordine e di tutto quello che gli richiese”[9]. Il papa approvò l’Ordine ma sembra che la memoria di Giordano si fosse un po’ offuscata perché il papa non lo fece in tutto secondo i desideri e l’idea di Domenico. Nella bolla Religiosam vitam del 22 dicembre 1216 mancava infatti un elemento essenziale: il nome del nuovo Ordine che implicava anche il suo scopo. Solo in una seconda bolla, Gratiarum omnium largitori, del 21 gennaio 1217, il papa avrebbe chiamato Domenico e i suoi frati esplicitamente predicatori[10].
Le udienze si svolgevano di regola nel cosiddetto patriarchio cioè nella residenza dei papi. Ai tempi di Domenico il complesso era esteso su quasi tutta l’area intorno alla basilica. Quando fu costruito l’odierno palazzo del Laterano dal 1585 al 1589, l’architetto Domenico Fontana fece demolire gran parte degli edifici preesistenti come l’aula conciliare con la loggia delle benedizioni. Nel medioevo un porticato collegava quell’aula con gli altri edifici del patriarchio come il Triclinio Leoniano di cui si è conservato solo il mosaico non più in situ ma trasportato in un nicchia eretta apposto. L’unico segmento ancora esistente in situ è la Sancta Sanctorum, l’antica cappella privata dei papi, oggi racchiusa nell’edificio della Scala Santa. La Sancta Sanctorum deve il suo nome al ricco tesoro di reliquie e dell’icona di Cristo considerata “acheropita”, non dipinta da mano umana, conservati qui. Secondo la tradizione la Scala Santa venne portato dall’imperatrice Elena, madre di Costantino, dalla Fortezza Antoniana di Gerusalemme a Roma insieme alle particole della croce ed alle altre reliquie che ricordavano la morte salvifica di Gesù Cristo e che oggi sono esposte nella chiesa di S. Croce in Gerusalemme a pochi minuti dal Laterano.
Si può visitare il Santuario della Scala Santa e salire pregando la Scala Santa stessa o prendendo una delle scale laterali che portano alla cappella Sancta Sanctorum.
Il luogo dove Domenico dimorò durante il secondo e il terzo soggiorno a Roma è sconosciuto, ma la testimonianza di Fra Guglielmo di Monferrato dice che “in quei giorni (lui parla del 1215, n.d.a.) Fra Domenico dimorava presso la curia romana”[11]; dato probabile visto che era venuto sia nel 1215 che nel 1216 insieme al suo vescovo. Lo stesso Fra Guglielmo depone al processo di canonizzazione sulla sua conoscenza di Domenico a Roma nella casa di Ugolino perché Domenico “spesso veniva dal predetto vescovo di Ostia”[12]. Una testimonianza che sembra essere confermata da Tommaso da Celano che colloca l’incontro tra Domenico e Francesco nella casa di Ugolino a Roma[13] che però non è più localizzabile.
Quando Domenico si recava alla basilica di S. Giovanni per pregare nella omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput (madre e capo di tutte le chiese dell’urbe e dell’orbe) la vedeva ancora nella sua maestosa semplicità, tipica per l’epoca tardo-antica e senza le aggiunte barocche e la trasformazione dell’interno da parte di Francesco Borromini. Una raffigurazione a S. Martino ai Monti mostra la basilica prima dell’intervento borrominiano dando un’impressione della chiesa che Domenico vedeva lungo i suoi soggiorni romani. Purtroppo la basilica non conserva nessuna memoria materiale delle visite di san Domenico – ma nella seconda capella della navata esterna meridionale si trova una pala d’altare di Giovanni Odazzi e Ignaz Stern raffigurante l’assunzione di Maria con i Santi Domenico e Filippo Neri. Inoltre si vede sotto la pala il resto di un affresco raffigurante la Dormitio Mariae che, prima di essere da lì staccato e collocata qui, si trovava nell’aula conciliare.
Nella capella del Crocifisso, a destra dell’entrata settentrionale, si trova la tomba di Innocenzo III, il primo papa che Domenico incontrò a Roma. Prima di tutto rimane il ricordo che in questa basilica Domenico sperimentava l’universalità della Chiesa alla quale sapeva mandato il suo Ordine per illuminare il mondo con la luce del Vangelo.
Riflessione
L’immagine del santo che con la sua fondazione sostiene la Chiesa come un pilastro l’edificio è nota anche nella tradizione francescana e racconta dell’importanza delle fondazioni degli ordini dei mendicanti che promuovevano un nuovo modello di vita religiosa che si presentava come alternativa a una Chiesa che correva il pericolo di perdersi nella propria opulenza. Tanti vescovi avevano dimenticato la loro responsabilità di guidare e tutelare le anime che loro erano state affidati. Vivevano da signori, trascuravano la formazione del clero e ancora di più la vita spirituale e i bisogni dei semplici fedeli. Per questo i gruppi eretici come i catari non avevano grandi difficoltà nel trovare seguaci fra il popolo minuto, fra quella gente che si sentiva attratta da una vita evangelica vera ma non la trovava più in una Chiesa i cui rappresentanti erano più interessati alle rendite dei loro benefici che alla salvezza delle anime.
Per Domenico una vita fuori della comunione con la Chiesa era impensabile. Anche perché si rendeva conto che l’insegnamento dei catari, un dualismo estremo che tanto disprezzava il corpo quanto esaltava la povertà, era lontano dal messaggio evangelico. Vivere povero, volontariamente povero, era per lui una via di seguire Gesù Cristo non un mezzo ascetico per liberarsi dal peso del corpo. Assumeva elementi della loro forma di vita per poter predicare in maniera credibile la Parola di Dio. Come san Paolo si è “fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” [14]. In questo suo approccio alla predicazione, nella compassione che ebbe per quelli che vivevano nell’errore, nel suo sguardo limpido di vedere anche le mancanze della Chiesa, nel suo coraggio di fidare nella forza della parola, non solo in quella di Dio ma anche in quella rivolta agli uomini e infine nel suo abbandono assoluto a Dio si trovano le fondamenta della sua spiritualità che formerà il suo Ordine.
Secondo una tradizione vigente nell’Ordine dei Predicatori fu proprio l’esperienza di una lunga notte a Tolosa trascorsa disputando con “l’eretico che li ospitava, il quale non potendo resistere alla sapienza e alla parola convincente di lui, ritornò alla fede”[15]. Domenico era convinto della verità del Vangelo – ma era altrettanto convinto che la verità si rivela nella contemplazione della parola, nell’ascolto e nel dialogo, nella ricerca della verità che non è un frasario di correttezze ma persona, incarnatasi in Gesù Cristo, via, verità e vita. Questa era la verità che proclamava Domenico. La sua missione era quella degli apostoli che il Signore aveva inviati ordinando loro: “predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino”[16]. I suoi contemporanei concordano che lui contemplava e studiava continuamente la Parola di Dio e “esortava i Frati dell’Ordine a studiare continuamente il Nuovo ed il Vecchio Testamento”[17]. Segno dell’importanza che Domenico dava alla Sacra Scrittura è anche il fatto che lui che rinunciava a ogni proprietà, “portava sempre con sé il Vangelo di Matteo e le Epistole di Paolo e tanto le studiava, che le sapeva quasi a mente”[18].
Sembra una banalità che il predicatore stesso dovesse mettere in pratica la parola predicata, ma purtroppo una verità che tanti predicatori avevano dimenticato. La chiesa come la sognò Innocenzo III secondo la leggenda “mostrava di fare grande ruvinamento”[19] – ed è ovvio che l’immagine dell’edificio di S. Giovanni in Laterano era solo un simbolo per la Chiesa, comunità universale dei fedeli. L’unità tra la parola e la sua predicazione si era spezzata. Bisognava ritornare alla verità profonda del Vangelo, seguire veramente Gesù Cristo, tornare all’essenziale che la Sacra Scrittura testimoniava. Questa era la strada di san Domenico: camminando nelle orme del Signore come gli apostoli – per essere sostegno della Chiesa e rinnovarla.
Pietro in Vaticano
Un episodio, annotato da Costantino da Orvieto, riprende il tema della spiritualità apostolico-evangelica e lo lega alla missione universale dell’Ordine: la visita di Domenico alla basilica di S. Pietro e la visione degli apostoli Pietro e Paolo.
L’imponente basilica che l’imperatore Costantino fece erigere a cominciare all’incirca dal 318 era la meta di tutti i pellegrini che venivano a Roma per pregare presso la tomba dell’apostolo. Anche per questo è più che probabile che Domenico si sia recato in Vaticano per chiedere l’intercessione dell’apostolo per la sua fondazione. Proprio questo lo racconta Costantino:
“Conciò dunque fosse cosa che il servo di Dio mess. santo Domenico fosse a Roma, e ne la chiesa di mess. san Piero apostolo nel cospetto di Dio facesse orazione che Dio li degnasse conservare e dilatare l’Ordine, il quale la diritta mano di Dio piantava per lui; eccoti venire la mano di Dio sopra di lui. E vide per una cotale visione d’immaginamento subitamente venire a sè i gloriosi apostoli san Piero e san Paulo. De’ quali l’uno primamente, ciò fu messer san Piero, parea che li desse uno bastone, e san Paolo il libro, così dicendo: “Va, e predica, perciò che da Dio se’ eletto a questo officio.” Poco stante in poco di tempo gli parea vedere i suoi figliuoli per tutto el mondo sparti andare a due a due predicando la parola di Dio a li populi.”[20]
Costantino non vuole che ci sia nessun dubbio: dopo aver raccontato l’approvazione dell’Ordine da parte di Onorio III parla della visita di Domenico a S. Pietro in modo tale che all’approvazione del papa ne segue quella degli apostoli. Domenico stesso è chiamato a seguire la via degli apostoli, a mettersi in cammino come predicatore itinerante, il che viene ricordato nella consegna del bastone, arnese utile e necessario per ogni pellegrino. È chiamato a proclamare la Parola di Dio, il che viene ricordato nella consegna del libro, simbolo della Sacra Scrittura. La missione di san Domenico e del suo Ordine è una missione divina e universale. Nel “Va, e predica” che gli apostoli rivolgono a Domenico risuona il mandato divino ai profeti e ai discepoli di Gesù. Come loro anche i Frati Predicatori predicano spartiti per il mondo a i popoli.
Come già a S. Giovanni in Laterano neanche a san Pietro si è conservato un ricordo “materiale” della presenza di san Domenico. Solo un’altra raffigurazione a S. Martino ai Monti può darci l’impressione della basilica vaticana prima della sua distruzione. Si può immaginare che Domenico come tanti altri pellegrini abbia venerato la tomba dell’apostolo alla quale si poteva accedere attraverso due scale che portavano a una cripta semicircolare che corrispondeva all’incirca all’attuale confessio che permette oggi ai pellegrini di pregare alla tomba di san Pietro.
Nel coro, a destra del monumentale reliquario della Cattedra Petri, si trova la scultura marmorea di san Domenico, un’opera di Pierre Legros (1706). Sembra che egli e san Francesco, la cui statua si trova sul lato opposto, veglino insieme sulla cattedra dell’apostolo per ricordare che una Chiesa che vuole essere credibile deve vivere il Vangelo nella povertà e predicarlo nella verità.
Domenico parte da Roma nel marzo del 1217 per ritornare in Francia. Dopo alcuni mesi trascorsi a Tolosa e dintorni si mette nuovamente in viaggio per Roma dove arriva nelle prime settimane del 1218. Nuovamente si incontra con il papa per chiedergli sostegni spirituali ed istituzionali che consolidassero la giovane comunità, dopo aver mandato i frati a Parigi e in Spagna. L’11 febbraio 1218 Onorio III consegna una nuova bolla in cui raccomanda i frati dell’Ordine dei Predicatori (fratres ordinis praedicatorum) ai vescovi e chiede loro di accoglierli nelle proprie diocesi. Questa bolla riporta la prima volta il nome dell’Ordine voluto dal suo fondatore.
Domenico si fermò per alcuni mesi a Roma e predicò nella Quaresima del 1218 in diverse chiese della città. Durante questo soggiorno conobbe anche Reginaldo d’Orleans che sarebbe diventato uno dei primi frati a Bologna, città nella quale Domenico aveva già mandato due frati che lo raggiunsero a Roma dopo che erano giunti dalla Spagna per incontrarlo nella città eterna. Nel maggio del 1218 si mise in cammino verso Bologna per dedicarsi alla nuova fondazione del convento e sollecitare i frati nella predicazione fra gli studenti dell’università più antica dell’occidente.
Dopo aver trascorso qualche tempo a Bologna, Domenico si mise nuovamente in cammino per un viaggio lungo che lo portò prima in Spagna e poi a Parigi. Solo nell’autunno del 1219 si diresse nuovamente verso Roma per incontrare papa Onorio III che si trovava in quel periodo a Viterbo. Voleva infatti presentare al papa gli sviluppi dell’Ordine e parlagli delle difficoltà che i frati incontravano nonostante le raccomandazioni papali. Durante questi incontri il papa affidò a Domenico un altro progetto a lui caro, la riforma dei monasteri di Roma.
Già Innocenzo III aveva previsto una riforma della vita monastica a Roma e voleva radunare le monache di Roma in un unico monastero. I monasteri esistenti, non più di sette per un numero totale di forse ottanta monache, erano in buona parte amministrati dalle famiglie delle monache. Alla vita delle monache mancava sia la struttura della vita regolare che un fondamento spirituale. Onorio III aveva ripreso il progetto e desiderava che Domenico riunisse le monache dei diversi conventi in un monastero nuovo dando loro non solo una nuova regola ma una nuova prospettiva spirituale per vivere la loro vocazione contemplativa. Per questo il 17 dicembre del 1219 Onorio III diede a san Domenico la chiesa e il monastero di S. Sisto che diventò in seguito la prima dimora dei Frati Predicatori a Roma. Nell’aprile 1220 però Domenico dovette partire per Bologna per il capitolo generale dell’Ordine e si fermò in Italia settentrionale sino alla fine dell’anno.
Domenico ritornò a Roma nel dicembre 1220 e si stabilì a S. Sisto per completare la riforma dei monasteri. Dopo la fine dei lavori e l’insediamento delle monache lì nel febbraio del 1221 i frati si spostarono a S. Sabina all’Aventino.
Sisto
Fino ad oggi il convento di S. Sisto conserva delle memorie della presenza di san Domenico che venne ad abitare qui con i suoi frati per più di un anno, il tempo che serviva per terminare i lavori del nuovo monastero perché potesse ospitare una comunità di monache. Della presenza di Domenico a S. Sisto siamo ben informati soprattutto dai ricordi di suor Cecilia di Roma[21], che era una delle prime monache del nuovo monastero.
L’attuale chiesa di S. Sisto conserva ancora gran parte della struttura medievale che a sua volta era una trasformazione della basilica tardoantica, il titulus Crescentiana, la cui fondazione risale all’epoca del pontificato di papa Anastasio I (399-401). Era papa Innocenzo III che fece trasformare l’antica struttura riducendone le dimensioni e alzando il pavimento per adattarlo al livello stradale. A quell’epoca risale anche la costruzione del monastero che fu completato quando Domenico venne a dimorarvi. Nel convento sono ancora visibile parti del chiostro, la sala capitolare e il refettorio.
Il refettorio
Sarebbe stato proprio qui, nel refettorio di S. Sisto, dove si sarebbe svolto “il miracolo dei pani” ossia l’arrivo dei pani per sfamare i frati grazie alla divina provvidenza. Secondo un’altra tradizione, il miracolo dei pani viene ricordato anche nel refettorio del primo convento a Bologna, S. Maria della Mascarella[22]. Suor Cecilia che non era presente in quell’occasione racconta una storia veramente meravigliosa e, considerando le altre fonti, un po’ esagerata. Il nucleo di tutti questi racconti è però sempre lo stesso: I frati che erano stati mandati a chiedere le elemosine non erano riusciti a raccogliere abbastanza pani e altre vivande per la cena della comunità. Tornati lo dissero a Domenico che li assicurava che il Signore si avrebbe preso cura di loro e invitava i frati a recarsi nel refettorio. E lì, racconta suor Cecilia,
“il Beato Padre diede la benedizione della mensa e, dopo che i Frati si furon seduti, Fra Enrico de Roma cominciò la lettura consueta. Intanto il Beato Domenico si era messo a pregare a mani giunte. Ed ecco – secondo quanto egli aveva promesso per ispirazione della Spirito Santo – apparire all’improvviso in mezzo al refettorio, inviati dalla Divina Provvidenza, due giovani bellissimi, carichi ciascuno, davanti e di dietro, die due bianche tovaglie piene di pane. Cominciando a servire dagli inferiori, uno da lato destro e l’altro a sinistra, diedero a ciascun Frate un pane intero di mirabile bellezza. Quando poi giunsero al Beato Domenico e gli ebbero date anche a lui un pane intero, fattagli riverenza di capo, scomparvero all’improvviso e dove andassero e da dove fossero venuti fino ad oggi nessuno lo sa”[23].
La sala capitolare
Nella sala capitolare ricordano tre degli affreschi del pittore domenicano Jacinthe Besson (1852-1854) i miracoli di Domenico legati al monastero, soprattutto le resurrezioni a lui attribuite e raccontate da suor Cecilia. Il primo miracolo riportato da lei, Come il Beato Domenico risuscitò il figlio di una vedova, fa presente che Domenico era solito predicare nelle chiese romane, il che avvenne anche nella Quaresima del 1221. Il miracolo prende inizio nella chiesa di S. Marco, vicino al Campidoglio. Una donna romana
“divorata dal desiderio di sentire dalla sua bocca la parola di Dio, lasciò solo il figlioletto ammalato e andò in quella chiesa ad ascoltare la predica. Quando tornò a casa, a predica finita, trovò morto il bambino. La povera madre, impietrita dal dolore ma nascondendo la sua sofferenza, fiduciosa nella potenza di Dio e nei meriti del Beato Domenico, facendosi accompagnare dalle ancelle andò da lui, portando con sé il figliolo morto. Il Beato Domenico dimorava in quel tempo con i suoi Frati presso la chiesa di S. Sisto e, siccome si stava adattando il Convento per ricevervi le Suore e quindi la clausura era aperta agli operai, potevano entrarvi anche le altre persone. Entrò adunque (quella donna) e lo trovò in piedi vicino alla porta del Capitolo come se stesse aspettando qualcosa. Appena lo vide, pose il cadaverino ai suoi piedi e piangendo si mise a supplicarlo in ginocchio di renderle suo figlio. Allora il Beato Domenico, mosso a compassione da quel profondo dolore, si scostò un poco da lei raccogliendosi in preghiera; poi si alzò, si accostò al piccino facendo su di lui il segno della croce e infine, prendendolo per mano, lo sollevò da terra vivo e lo restituì sano e salvo alla madre, ingiungendole però di non parlare della cosa con nessuno”[24].
Ben documentata dalle fonti agiografiche è altresì la resurrezione del nipote del Cardinale Stefano di Fossanova, Napoleone. Il rapporto più antico si trova nel libellus di Giordano di Sassonia che, non essendo stato presente, l’aveva appreso da fra Tancredi:
“un giovane parente del Signor Cardinale Stefano di Fossanova, mentre per divertimento si dava imprudentemente a una corsa frenata a cavallo, fece una gravissima caduta e lo stavano trasportando piangendo. Sembrava mezzo morto o, per il suo stato di evidente incoscienza, anche morto del tutto. Intorno al defunto crescevano i lamenti, quando sopraggiunse Maestro Domenico. Con lui c’era anche Fra Tancredi, uomo buono e fervoroso, che fu per qualche tempo Priore di Roma, dal quale io ho appreso questa narrazione. Costui disse a Domenico: “Perché ti nascondi? Perché non preghi il Signore? Dov’è ora la tua carità per il prossimo? Dove la tua fiducia in Dio?” Spronato da tali esortazioni del fratello e vinto da un sentimento ardente di compassione, fece portare il giovane lontano dalla confusione, in una camera chiusa e per virtù delle sue preghiere gli rese il calore della vita e lo riportò sano e salvo all’aperto, davanti a tutti”[25].
La resurrezione di un maestro artigiano viene raccontato solo da Costantino da Orvieto[26] ed è stata raffigurata dal Besson nella sala capitolare per lo stretto legame al convento di S. Sisto.
I tre affreschi restanti raffigurano l’apparizione degli apostoli Pietro e Paolo a Domenico, il suo incontro con Francesco e la consegna della corona del rosario. Suor Cecilia parla anche di altri miracoli come guarigioni e prove superate da Domenico che avvenivano a S. Sisto o in altri luoghi di Roma.
Marco
Marco è legata non solo alla resurrezione del figlio della vedova ma conserva la memoria alla predicazione di san Domenico. Nonostante le modificazioni dovute all’integrazione della chiesa in Palazzo Venezia, essa conserva quasi intatto il mosaico absidale che risale al nono secolo ed è lo stesso che ha visto Domenico quando veniva a predicare. Un affresco in una delle cappelle della navata destra ricorda il miracolo avvenuto però a S. Sisto.
Porta Asinaria
Trovandosi oggi un po’ più in basso dell’attuale Porta di S. Giovanni, la cosiddetta Porta Asinaria risale alla porta romana originale della cinta muraria voluta dall’imperatore Aureliano. Nel medioevo una parte del complesso, una delle torri, serviva come cella per una reclusa, suor Buona, la quale fu guarita da S. Domenico da una grave malattia.[27]
Anastasia
Dietro la chiesa nelle vicinanze del Circo Massimo si trovava la cella di un’altra reclusa, suor Lucia. Lei soffriva probabilmente di una grave infezione del braccio e fu guarita da san Domenico dopo che lui aveva visto il braccio e benedetta la reclusa.[28] Una via adiacente la chiesa ma oggi solo in parte reperibile portava da lì a S. Sisto e “il Beato Domenico, recandosi a S. Sisto, passava frequentemente di lì”[29].
Riflessione
Avvicinandosi alla persona di Domenico i suoi contemporanei o coloro che scrivevano su di lui pochi anni dopo la sua morte sceglievano diversi approcci. Giordano, nel libellus, cerca di tracciare i grandi lineamenti della fondazione dell’Ordine mostrando il significato di Domenico per la sua fondazione e le sue virtù in vista del processo di canonizzazione. Lo stesso vale per i testimoni del processo che mettono in evidenza la sua religiosità profonda, la vita di preghiera e l’empatia con cui andava incontro a chiunque. Suor Cecilia[30] racconta i miracoli. Chi però si avvicinasse ai suoi racconti indagandoli solo sotto l’aspetto storico-scientifico non se accorgerebbe del significato più profondo di questi miracoli. Raccontando i miracoli suor Cecilia fa vedere la vita di un uomo di cui ha conosciuto la santità e intuito una vicinanza straordinaria a Gesù Cristo che con la sua fede e la sua preghiera riportava alla vita persino i morti.
La meta dell’Ordine che fu fondato per la predicazione e la salvezza delle anime si realizza nella vita del suo fondatore le cui parole e azioni portano questa salvezza realmente alle persone. Il miracolo vuole suscitare stupore e meraviglia per attirare l’attenzione dei lettori, vuole rendere in un certo qual modo “visibile” ciò che per sua natura appartiene alla sfera del trascendente.
In base a questa riflessione sarebbe auspicabile che il miracolo portasse a chiedersi in che modo coloro che lo ammirano possono fare dei miracoli anche loro. Seguire Cristo non consiste nel compiere azioni soprannaturali in seguito ai suoi miracoli ma nel mettere in pratica la sua parola portando la salvezza e la vita a tutti gli uomini che ne hanno bisogno. Il miracolo si compie dove un malato viene assistito, dove si sente compreso. Il miracolo si compie quando un uomo solo si accorge di avere un amico accanto che condivide le sue ansie e le sue preoccupazioni e trova parole che lo incoraggiano. È la fede che ci fa vedere i miracoli della vita e che ci sollecita a compierli a nostra volta.
Maria in Tempulo
Durante il suo ultimo soggiorno a Roma Domenico si occupava innanzitutto della riforma dei monasteri romani affidatagli un anno prima. Visitava i monasteri romani e cercava di convincere le monache a fondare una nuova comunità. Uno di questi monasteri si trovava a solo 300 metri da S. Sisto, S. Maria in Tempulo. Oggi si vedono solo i resti di una chiesa, già da anni sconsacrata, con alcuni spazi annessi.
Nel passato, oltre ad ospitare da secoli una comunità di monache, S. Maria in Tempulo era conosciuta per conservare una delle icone più antiche di Roma, la prima che secondo una tradizione locale sarebbe stata dipinta da san Luca e probabilmente di origine costantinopolitana. Le monache erano fiere di custodire quest’icona e suor Cecilia si ricorda come la badessa legava la disposizione sua e delle sue monache di cambiare monastero proprio al destino dell’immagine. Lei “aveva fatto voto di entrare lei e tutte le sue Suore, a patto che l’immagine della Beata Vergine restasse con loro nella chiesa di S. Sisto. (…) Il Beato Domenico aveva accettato volentieri quella condizione”[31] e lui stesso portò, un giorno dopo l’ingresso delle monache a S. Sisto[32], l’icona che “fu collocata con molta devozione nella chiesa delle Suore, dove fino ad oggi rimane insieme ad esse, a lode del Signor Gesù Cristo, cui si deve onore per tutti i secoli dei secoli.”[33]
Sabina all’Aventino
Dopo il trasloco definitivo della monache a S. Sisto, i frati, che fino ad allora avevano dimorato là, si trasferirono a S. Sabina. Secondo la tradizione Domenico era già da qualche tempo in trattative con Onorio III per chiedergli una sede per i frati. Dato che il documento della donazione di S. Sabina ai Frati Predicatori è stato stipulato soltanto nel 1222, non resta altro che ipotizzare su questa prima fase della vita dei frati sull’Aventino. Partendo dall’ingresso delle monache a S. Sisto i frati dovevano spostarsi intorno la prima domenica di Quaresima del 1221 occupando a S. Sabina i locali già esistenti sopra il nartece della basilica in cui si trovano oggi la cella di san Domenico e il cosiddetto dormitorio.
Basilica
Entrando nella basilica dalla porta laterale si nota un affresco sopra l’antica porta d’ingresso del convento verso il nartece. L’episodio raffigurato si riferisce a un racconto di suor Cecilia il quale, oltre di mostrare che la provvidenza divina accompagnava Domenico e i suoi in ogni momento, fa vedere che i frati si erano trasferiti sull’Aventino. Dopo una serata trascorsa a S. Sisto si era fatto tardi e le suore temevano di lascar ritornare Domenico nel mezzo della notte. Ma egli replicò alle loro esortazioni: “Il Signore vuole assolutamente ch’io vada: manderà un suo angelo ad accompagnarci”[34]. E usciti dal convento (S. Sisto) li aspettava già
“un bellissimo giovane, il quale aveva un bastone in mano come se fosse pronto per il viaggio. Allora il Beato Domenico mise i suoi compagni fra sé e quel giovane, mettendosi a camminare in terza posizione. Giunta alla porta della chiesa (S. Sabina), la trovarono chiusa e accuratamente sprangata; ma quel giovane, che li aveva preceduti per strada, si accostò ad un lato della porta e immediatamente si aprì”[35].
La basilica di S. Sabina ha conservato in gran parte il suo aspetto tardo-antico e alto medievale il che vale soprattutto per l’architettura armoniosa che rispecchia i canoni della classicità romana. In questo luogo san Domenico predicava e pregava, consegnando se stesso e la sua fondazione nelle mani di Dio. Quanti l’hanno conosciuto concordano che era fervente e perseverante nella preghiera e che veniva nella chiesa soprattutto di notte per vegliare e pregare. Anche i racconti agiografici e leggendari ricordano la sua preghiera. Una di queste leggende è particolarmente legata a S. Sabina. Racconta Geraldo di Frachet:
“Quando l’uomo santo una notte, prostrato in terra, il diavolo, avendo invidia alla sua orazione, gittò un gran sasso dal tetto della chiesa per quello turbare dalla istanzia della orazione. E venne questo sasso tanto appresso a lui che toccò il capuccio della sua cappa; e perseverando l’uomo santo immobile nella orazione, il demonio subito con terribile voce confuso si partì.”[36]
Quella pietra, la cosiddetta “pietra del diavolo”[37] viene ancora conservata nella basilica e si trova oggi accanto alla nicchia con l’icona del santo. Nel centro della schola cantorum un’iscrizione sulla lapide centrale segna il luogo di preghiera di san Domenico. Un’altra iscrizione più antica sulla stessa lapide ricorda che lì erano sepolte le sante martiri Sabina e Serafina nonché altri martiri venerati nella basilica. Il sarcofago con le loro reliquie si trova oggi sotto l’altare maggiore. Le incrinature nella lapide[38] svegliavano ancora una volta la fantasia della gente nei tempi antichi che le considerava i danni provocati dalla pietra scagliata dal diavolo.
Dormitorio
Sopra il nartece della basilica si trovano gli ambienti che i frati andarono ad abitare nel 1221. La costruzione della scala monumentale ha distrutto gran parte della costruzione medievale tranne la cella di san Domenico e il cosiddetto dormitorio. Il luogo è stato trasformato in museo intorno il 2010 ma sono ancora visibili gli archi della pentafora del nartece e i resti di una scala che portava alla vedetta del frate portinaio perché lui potesse vedere chi avesse suonato alla porta del convento. Il dormitorio è legato a una seconda visione di san Domenico, stavolta raccontata da suor Cecilia. Una sera in cui si trovava nel dormitorio Domenico vide tre donne: una con un secchiello, l’altra con un aspersorio e la terza che benediceva i frati facendo il segno della croce su di essi, aspergendoli con l’aspersorio che la seconda donna gli porgeva. Al termine della benedizione Domenico la avvicinò e la chiese chi fosse. Ed ella rispose: “Io sono colei che voi invocate ogni sera[39] e quando dite Eja ergo, advocata nostra, io mi butto in ginocchio davanti al mio Figlio per la conservazione di codesto Ordine”[40].
Fin dall’inizio Domenico e i suoi frati avevano affidato l’Ordine alla protezione della Madre di Dio il che emerge anche dalla seconda parte di quel racconto che sarà citato più avanti.
Cella
Nonostante la trasformazione della cella in cappella, progettata da Gian Lorenzo Bernini, la cella vera e propria ricorda ancora le celle medievali dei frati e rispecchia lo spirito di semplicità e modestia di san Domenico che doveva contrassegnare il suo Ordine. La tradizione vuole che qui avvenne l’incontro tra Domenico, Francesco e il carmelita Angelo, ricordato nell’affresco della volta. Il nucleo vero della faccenda è da cercarsi nelle diverse fonti che parlano di un incontro tra Domenico e Francesco; secondo il biografo di san Francesco, Tommaso da Celano, quell’incontro sarebbe avvenuto nella casa del cardinale Ugolino di Ostia a Roma che era in contatto con tutt’e due i fondatori degli Ordini.[41] Probabilmente dal racconto di Tommaso la tradizione passò dalla casa di Ugolino al convento di S. Sabina visto che i due luoghi erano nella stessa città.
Sopra la finestra è appeso un piccolo bassorilievo non appartenente all’arredo originale della cella-cappella ma evocando ancora una volta la venerazione di Maria nell’Ordine dei Predicatori e la relazione particolare con Lei che l’Ordine ha saputo conservare attraverso i secoli.
“Il Beato Domenico (…) fu rapito in ispirito davanti a Dio e vide il Signore e la Beata Vergine, seduta alla sua destra, rivestita – a quanto gli sembrava – di un mantello color zaffiro. Guardandosi attorno vide davanti a Dio rappresentanti di tutti gli Ordini Religiosi, ma del suo non scorse nessuno; per la qual cosa cominciò a piangere amaramente e, fermatosi lontano, non osava avvicinarsi al Signore e a sua Madre. Fu la Madonna a fargli cenno con la mano di accostarsi a lei; ma egli non osò muoversi fino a tanto che anche il Signore non lo ebbe chiamato. Si accostò allora tutto piangente e si inginocchiò davanti a loro. Il Signore li invitò ad alzarsi e, quando si fu alzato, glie chiese il perché di quel pianto sconsolato. “Piango così – rispose – perché vedo qui rappresentanti di tutti gli Ordini, ma del mio non vedo nessuno”. Allora il Signore: “Vuoi vedere il tuo Ordine?”. E quello tremante: “Sì, o Signore”. Allora il Signore, ponendo una mano sulla spalla della Beata Vergine, si rivolse nuovamente al Beato Domenico: “Il tuo Ordine io l’ho affidato a mia Madre”. Poi soggiunse: “Ma lo vuoi proprio vedere?”. Rispose il Beato Padre: “Certo, o Signore”. La Beata Vergine spalancò il mantello di cui sembrava rivestita e lo stese davanti al Beato Domenico, al quale sembrò tanto grande da ricoprirne tutta la patria celeste e sotto di esse vide una moltitudine immensa dei suoi frati. Inginocchiandosi il Beato Domenico ringraziò allora Dio e la Beata Maria sua Madre. E la visione scomparve.”[42]
In quanto un luogo altamente simbolico la cella invita a una preghiera al termine dell’itinerario romano dei luoghi di san Domenico, chiedendo la benedizione del Padre e l’intercessione di santa Maria e san Domenico.
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
Perché tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli.
Amen.
Sub tuum praesídium confúgimus,
sancta Dei Génetrix;
nostras deprecatiónes ne despícias
in necessitátibus;
sed a perículis cunctis
líbera nos semper,
Virgo gloriósa et benedícta.
Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio,
santa Madre di Dio:
non disprezzare le suppliche di noi
che siamo nella prova,
e liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta.
O lumen Ecclesiae,
Doctor veritatis,
Rosa patientiae,
Ebur castitatis,
Aquam sapientiae
propinasti gratis,
Praedicator gratiae
nos junge beatis.
O luce della Chiesa,
Dottore di verità,
Rosa di pazienza,
Avorio di castità,
gratuitamente
hai effuso
l’acqua della sapienza:
predicatore della grazia,
ricongiungi anche noi
tra i beati del cielo.
(Philipp Johannes Wagner OP)
Bibliografia
[1] Libellus 40-41. Per: Il „Libellus principiis Ordinis Praedicatorum“ del Beato Giordano di Sassonia No. 40-41, in: Lippini, Pietro (ed.), San Domenico visto dai suoi contemporanei, Bologna 21982, 40-41.
[2] Concilio Lateranense IV, capitolo I. in: http://www.intratext.com/IXT/ITA0138/_P1.HTM (25.5.2020).
[3] Ibid, capitolo X.
[4] Ibid.
[5] Ibid, capitolo XIII.
[6] Leggenda 39. Per: Costantino da Orvieto, Leggenda di San Domenico Fondatore dell’Ordine de’ Frati Predicatori, ed. Pietro Ferrato, Venezia 1867, p. 39.
[7] Libellus 42.
[8] L’appartenenza di Cencio alla famiglia Savelli è oggi fortemente contestata. Cf. Carocci, Sandro / Vendittelli, Marco, Onorio III, in: Enciclopedia dei Papi, http://www.treccani.it/enciclopedia/onorio-iii_(Enciclopedia-dei-Papi)/ (25.5.2020). Per questo la donazione di S. Sabina ai Frati Predicatori non può essere spiegata come donazione di una parte della proprietà familiare del papa (intorno all’attuale giardino degli aranci è ancora visibile la cinta muraria della rocca Savelli).
[9] Libellus 45.
[10] Cf. Lippini, p. 66, n. 86.
[11] Processo Bologna 12. Per: Atti del processo di Bologna, in: Lippini, Pietro (ed.), San Domenico visto dai suoi contemporanei, Bologna 21982, p. 262
[12] Ibid.
[13] Cf. Tommaso da Celano CIX per: Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco d‘Assisi, capitolo CIX, in: http://www.Santuariodelibera.it/FontiFrancescane/framevitaseconda.htm (25.5.2020).
[14] Cf. 1 Cor 9,22.
[15] Libellus 15.
[16] Mt 10,8.
[17] Processo Bologna 29.
[18] Ibid.
[19] Leggenda 39.
[20] Leggenda 43-44.
[21] Suor Cecilia aveva diciassette anni quando conobbe S. Domenico e dettava i suoi ricordi a una certa suor Angelica in età avanzata, probabilmente poco prima del 1288 (cf. Lippini p. 170-172). “I Miracoli del Beato Domenico” risentono da una parte la devozione dell’epoca e contengono probabilmente delle esagerazioni e alcune incertezze ma ciò nonostante sono una fonte importante per quanto riguarda i soggiorni di Domenico a Roma intorno gli anni 1220 e 1221.
[22] Una panoramica breve sulle diverse versioni del “miracolo dei pani” si trova in: Lippini, p. 193 n. 14.
[23] Miracoli 3. Per: I miracoli del Beato Domenico di Suor Cecilia, in: Lippini, Pietro (ed.), San Domenico visto dai suoi contemporanei, Bologna 21982, pp. 190-191.
[24] Miracoli 1.
[25] Libellus 100.
[26] Cf. Legenda 56.
[27] Cf. Miracoli 12.
[28] Cf. Miracoli 13.
[29] Ibid.
[30] Ma non solo lei. Lo stesso vale in parte anche per Giordano nel libellus, Costantino nella Leggenda e Gerardo di Frachet nelle vitae fratrum.
[31] Miracoli 14.
[32] Il trasloco avvenne nella prima domenica di Quaresima, 28 febbraio 1221.
[33] Miracoli 14. Oggi l’icona non si trova più a S. Sisto benché sia sempre custodita dalle monache domenicane che la presero con sé quando si trasferirono al convento dei SS. Domenico e Sisto nel 1575 e da lì al convento di S. Maria del Rosario sul Monte Mario nel 1931.
[34] Miracoli 6.
[35] Ibid. Miracoli.
[36] Vitae fratrum 77.
[37] In realtà si tratta di un antico peso romano che fu trovato probabilmente nelle vicinanze del foro boario che si trovava al di sotto dell’Aventino.
[38] Le incrinature sono dovute allo spostamento della lastra da parte dell’architetto Domenico Fontana nel sedicesimo secolo.
[39] Recitando o cantando l’antifona Salve Regina.
[40] Miracoli 7.
[41] Cf. Tommaso da Celano CIX.
[42] Miracoli 7.
L’orizzonte è sempre più ampio e completo se lo osserviamo da un punto alto. Così la vita, se la osserviamo dal suo compimento. A Rieti Domenico fu canonizzato. All’inizio del nostro percorso sulle orme dei suoi passi, il compimento di un sogno, di un progetto, di sfumature solo intraviste eppure desiderate, si fa più vicino. Perché è più facile affrontare le fatiche e le sfide della vita, se si tiene fissa nel cuore la meta. Ma quale meta? Per Domenico fu la risposta alla ricerca di un senso profondo: l’incontro con la Verità. Non, però, come qualcosa di astratto. La Parola di Dio si è fatta “bambino” in Cristo: ciò che cerco, forse, è nascosto nei gemiti di piccole intuizioni soffocate, talvolta, dalle paure, dalle sconfitte, dalle ferite, dall’orgoglio. Ciò che cerco, forse, lo troverò aprendo e ascoltando la Parola. Di questa, Domenico si innamorò: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore” (Geremia 15,16).
All’inizio del cammino, in questa prima tappa, guardo la vita di Domenico a partire dal suo compimento. A partire dalla sua santità. Provo a guardare anche la mia vita con uno sguardo più profondo. Ora, è vero, non comprendo il senso di tutto. Un giorno, però, visti “dall’alto”, tutti gli avvenimenti, gli incontri, le scelte, le gioie e i dolori, troveranno un senso più compiuto. La Provvidenza, intanto, mi accompagna nel cammino. Non mi farà mancare la luce, il pane e una mano tesa, lungo il percorso. Domenico ha avuto fiducia in Dio, anche quando tutto sembrava remare contro la strada che sentiva di dover intraprendere. Anche quanto la meta intravista sembrava troppo lontana. Una chimera! L’illusione di un giovane troppo sognatore. Di un giovane che credeva nell’uomo: nella sua intelligenza, nel suo cuore. Nel silenzio, nell’ascolto della vita e della storia, Domenico ritrovò se stesso e la via da percorrere.
A Rieti incontriamo anche una figlia di Domenico. Colomba era innamorata della vita. Amava le persone, la natura, l’arte, la danza. Era una donna coraggiosa, che si adoperò con tutte le forze per portare la pace a Perugia, dove aveva fondato un monastero. Il suo sorriso alla vita non era una semplice ed epidermica allegria: era alimentato da una silenziosa penitenza, da un amore intenso per il Signore e per tutti i Suoi figli. “E pensare”, scriveva commosso il suo padre spirituale, fr. Sebastiano Angeli OP, “che era lei ad averci riportati alla buona strada, noi disgraziati e peccatori”. La Beata Colomba è per noi un invito a riscoprire quella mitezza che, in lei, celava una straordinaria forza d’animo, ma anche la sua attenzione agli ultimi e la continua e paziente opera pacificatrice, che mai cedette allo spirito di parte. Un messaggio più che mai eloquente oggi, in un mondo fratturato dalle guerre, dalle lotte per il potere, dall’egoismo e dall’odio. Colomba divenne fecondo strumento di pace e canale privilegiato di comunione attraverso la valorizzazione dei doni tutti femminili della sensibilità, dell’equilibrio, della concretezza, della fortezza, dell’amorosa creatività. E anche del coraggio, della lungimiranza, della capacità di attenzione e cura. Forse, davvero, la donna è quel “punto alto” che unisce l’inizio con la fine, le intuizioni con il compimento dei sogni, la vita e la morte. Che concilia gli estremi. E che ci fa vedere la nostra esistenza da un punto di vista più creativo, nuovo, pieno di luce e di speranza. Ecco perché il Padre disse a Caterina da Siena che Domenico “fu uno lume che Io porsi al mondo col mezzo di Maria” (S. Caterina da Siena, Dialogo della Divina Provvidenza CLVIII, 478-479). Chi più della Madre di Gesù era adatta ad unire cielo e terra, e a riportare tutti gli uomini nel Cuore di Dio? (Monache Domenicane – Pratovecchio)
La chiesa di S. Domenico, annessa al convento dell’ordine dei Predicatori (Domenicani) di Rieti, fu per secoli la Basilica più ricca ed artisticamente interessante della città. Fu dichiarata formalmente eretta, dalla provincia romana, nel 1268. Nel corso degli anni la chiesa venne abbandonata causando la perdita della quasi totalità delle decorazioni tanto che nel 1779, il priore padre Scalmazzi, lamentando lo stato in cui si trovava, propose il suo abbattimento e la successiva riedificazione in forme più moderne e in stile barocco. In seguito alla rivoluzione francese, la chiesa dei Domenicani fu chiusa (18 Giugno 1810). Con l’unità d’Italia, i padri Domenicani furono cacciati da Rieti così il Convento di S. Domenico venne destinato a caserma dei militari. La Chiesa, in particolare, venne adibita ad ospitare le salmerie: così profanata, viene interdetta al culto nel 1890.
Dal XIII al XVIII sec. la chiesa costituì un immenso cantiere, scandendo le tappe evolutive dell’arte sacra secondo la tradizione consolidata, dal Romanico al Gotico, dall’età della controriforma all’età barocca. Attualmente la struttura esterna, dopo i lavori di ristrutturazione, è semplice, le facciate sono formate da blocchi di travertino. Su quella principale si apre il portone d’ingresso in legno, sormontato da un arco a tutto sesto e da un timpano ai lati del quale si aprono due piccole finestre. Fino alla fine del ‘700 sopra tale portale si apriva un rosone al posto del quale, oggi, è visibile un ampio finestrone. L’interno è costituito da un’unica e ampia navata.
La canonizzazione di Domenico di Guzman avvenne a Rieti nel 1234. Le fonti sono praticamente unanimi nell’indicare la data dell’avvenimento e della città. Nel luglio di quell’anno, infatti, Gregorio IX proclamò la santità del Santo Fondatore dell’Ordine dei Predicatori, lo annoverò nel catalogo dei santi e ne fissò la festa liturgica il 5 agosto, vigilia dell’anniversario della sua morte.
[Fonte: http://www.prefettura.it/rieti/contenuti/Chiesa_di_san_domenico_rieti-78257.htm
http://www.frontierarieti.com/la-canonizzazione-di-san-domenico-a-rieti/
Vicaire: pp. 667-668
Bolla di canonizzazione Fons Sapiantiae
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