Il viaggio è un tratto caratteristico dell’esperienza di vita e di fede di san Domenico. Proponiamo un itinerario che, sviluppandosi sul tracciato dell’antica Via Francigena da Roma fino a Bologna, si snoda sulle orme lasciate da san Domenico durante il suo ultimo viaggio.
Si tratta di un invito a scoprirsi viaggiatori, pellegrini, erranti, bisognosi di mettere i propri passi nel moto che abita l’intimo, di dargli carne o semplicemente di assumerlo, divenendone coscienti. Si tratta di scoprire che si è già in cammino e che questo – il proprio cammino – chiede di essere accompagnato dalla mente e dal cuore. Come fece Domenico percorrendo a piedi mezza Europa.
Vi invitiamo a intraprendere questo pellegrinaggio idealmente, seguendo le tappe proposte di seguito, ma anche a mettervi realmente in viaggio.
Tutte le informazioni logistiche, sulla distanza del tragitto tra una tappa e l’altra, ma anche sulla storia, l’arte e la spiritualità domenicana legate a questi luoghi sono disponibili sulla App “SloWays”, scaricabile gratuitamente.
Per maggiori informazioni sull’organizzazione del viaggio, rimandiamo al sito di SloWays, agenzia specializzata in turismo sostenibile e partner tecnico dell’iniziativa.
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Il Cammino di san Domenico aderisce al Manifesto dell’Alleanza per la Mobilità Dolce
Intorno al 1219, Domenico si stabilì a Roma, città in cui si dedicò alla fondazione di un monastero di monache e portò a compimento il processo della fondazione dell’Ordine. Il suo ultimo viaggio lo portò a Bologna nel 1221, dove morì il 6 Agosto dello stesso anno. Domenico fu un uomo di preghiera e di predicazione. Attinse le sue forze dalla contemplazione della verità di Dio e trasmise agli altri la propria fede. Dissero di lui i suoi contemporanei: “Parlava sempre con Dio o di Dio”.
Il pellegrinaggio proposto segue idealmente quest’ultimo viaggio di san Domenico e invita a meditare i diversi aspetti della sua vita e della sua spiritualità che hanno formata l’Ordine da lui fondato. I testi che illustrano questo pellegrinaggio, narrazioni dei suoi contemporanei o di coloro che hanno lasciato la loro testimonianza degli anni iniziali dell’Ordine, vogliono essere degli impulsi per poter legare alcuni momenti della vita di S. Domenico ai luoghi ancora visibili e a quelli oggi distrutti o modificati fino all’irriconoscibilità.
Oltre ad un primo viaggio che Domenico aveva fatto a Roma intorno gli anni 1205 o 1206, giunse per la seconda volta nella città eterna nel 1215.
Dopo aver incontrato i catari durante il suo viaggio con Diego d’Acebo verso il nord Europa Domenico si era stabilito nella Francia del Sud predicando soprattutto ai catari ai quali si sapeva mandato in modo particolare. I frati che l’hanno conosciuto concordano che egli soffriva veramente di vedere tante persone allontanarsi dalla verità del Vangelo. Era pieno di compassione per quanti seguivano questa strada sbagliata che – e per questo il santo si commosse fino alle lacrime – li avrebbe allontanati anche dalla salvezza eterna. Nel corso degli anni che aveva trascorso nella Linguadoca aveva fondato un monastero per donne catare pentite a Prouille e anche una comunità di predicatori a Tolosa. Ma questa comunità non poteva rimanere un piccolo gruppo approvato dal solo vescovo di Tolosa. Domenico aveva la visione di un’opera più grande, un vero Ordine di Predicatori che potevano proclamare la Parola di Dio in ogni città, ogni diocesi e ogni paese. Nel 1215 aveva l’occasione nuovamente di tornare a Roma accompagnando il suo vescovo Fulco al Concilio Lateranense IV. Così avrebbe avuto la possibilità di presentare il suo progetto a papa Innocenzo III.
San Giovanni in Laterano
Il Laterano divenne per Domenico il luogo più importante dei due soggiorni a Roma che sono legati alla conferma dell’Ordine. Qui risiedeva il papa, qui si radunavano i padri conciliari e qui avrebbe conosciuto uno dei suoi sostenitori e amici più importanti della curia romana, il vescovo di Ostia, cardinal Ugolino, il futuro papa Gregorio IX. Al Laterano fu ricevuto da papa Innocenzo III per la prima presentazione del nuovo Ordine. Ma purtroppo l’udienza non ebbe l’esito da lui sperato. Scrive Giordano di Sassonia, il suo successore alla guida dell’Ordine:
“Fra Domenico si accompagnò al predetto Vescovo per andare con lui al Concilio e con pari desiderio pregare Papa Innocenzo che confermasse a Fra Domenico e ai suoi compagni quell’Ordine che doveva essere di nome e di fatti un Ordine di Predicatori (…) Ma, ascoltata la loro richiesta, il Romano Pontefice esortò Fra Domenico a ritornare dai suoi Frati per scegliere di comune accordo, dopo avere con essi discusso della cosa, una delle Regole già approvate (…) ciò fatto, Fra Domenico avrebbe dovuto tornare dal Papa per ricevere la conferma di tutto”.[1]
Da un lato il Concilio Lateranense IV si era dichiarato in maniera chiara contro gli insegnamenti dei catari e albigesi e aveva confermato che “uno, dopo aver ricevuto il battesimo, è nuovamente caduto nel peccato, può sempre riparare attraverso una vera penitenza”[2]. Il Concilio aveva addirittura riconosciuto che “tra le altre cose che riguardano la salvezza del popolo cristiano, si sa che il nutrimento della Parola di Dio, è tra i più necessari”[3] e che per questo “i vescovi scelgano persone adatte ad attendere perciò saltuariamente all’ufficio della santa predicazione”[4]. Presentando il suo Ordine Domenico aveva proposto proprio questo, solo che egli non pensava alla predicazione come un’attività alla quale i frati attendessero saltuariamente ma una alla quale si dedicassero con tutta la loro vita. Dall’altro lato lo stesso Concilio aveva proibito per “l’eccessiva varietà degli ordini religiosi (…) che in futuro si fondino nuovi ordini. Chi quindi volesse abbracciare una forma religiosa di vita, scelga una di quelle già approvate.”[5]
Il racconto di Giordano, che compila il suo libellus, il libretto sugli inizi dell’Ordine, intorno al 1233, riassume in maniera generica che cosa era accaduto a Roma. Forse possiamo scorgere fra le righe anche un accenno allo scetticismo del papa che rimandava l’approvazione dell’Ordine a un prossimo incontro, basandosi sui canoni del Concilio circa le nuove fondazioni di comunità religiose. Costantino da Orvieto che compilava una delle prime leggende di S. Domenico introno al 1246 racconta che il papa si convinse solo dopo aver sognato
“che la chiesa del Laterano avesse disciolte tutte le sue congiunture, e così mostrava di fare grande ruvinamento subitamente. La qual cosa veggiendo elli con grande tremito piangendo, dall’altra parte soccoreva il servo di Dio messer santo Domenico, e co le spalle sue sosteneva tutto quel dificio che voleva cadere”[6].
Comunque sia, Domenico tornò a Tolosa alla fine del 1215 o ai primi del 1216, si consultò con i frati e insieme scelsero, come testimonia Giordano, “senza esitazione la Regola di quel grande predicatore che fu sant’Agostino”[7]. L’affermazione di attribuire la scelta della regola all’importanza che sant’Agostino ebbe come predicatore non lascia dubbi che già dal primo momento dell’esistenza dell’Ordine il suo scopo veniva evidenziato. Domenico e i suoi frati non volevano essere religiosi come tanti altri ma predicatori, uomini evangelici che vivessero la Parola di Dio come elemento essenziale della loro vita.
Dopo il soggiorno in Francia Domenico si mise nuovamente in cammino verso Roma. Il 16 luglio 1216 era morto Innocenzo III ma il conclave aveva eletto solo due giorni più tardi il suo successore, il cardinale Cencio [8] che si impose il nome di Onorio III. Il nuovo papa seguiva la linea del suo predecessore e quando Domenico lo incontrò “ottenne piena conferma, secondo i suoi desideri e l’idea da lui concepita, dell’Ordine e di tutto quello che gli richiese”[9]. Il papa approvò l’Ordine ma sembra che la memoria di Giordano si fosse un po’ offuscata perché il papa non lo fece in tutto secondo i desideri e l’idea di Domenico. Nella bolla Religiosam vitam del 22 dicembre 1216 mancava infatti un elemento essenziale: il nome del nuovo Ordine che implicava anche il suo scopo. Solo in una seconda bolla, Gratiarum omnium largitori, del 21 gennaio 1217, il papa avrebbe chiamato Domenico e i suoi frati esplicitamente predicatori [10].
Le udienze si svolgevano di regola nel cosiddetto patriarchio cioè nella residenza dei papi. Ai tempi di Domenico il complesso era esteso su quasi tutta l’area intorno alla basilica. Quando fu costruito l’odierno palazzo del Laterano dal 1585 al 1589, l’architetto Domenico Fontana fece demolire gran parte degli edifici preesistenti come l’aula conciliare con la loggia delle benedizioni. Nel medioevo un porticato collegava quell’aula con gli altri edifici del patriarchio come il Triclinio Leoniano di cui si è conservato solo il mosaico non più in situ ma trasportato in un nicchia eretta apposto. L’unico segmento ancora esistente in situ è la Sancta Sanctorum, l’antica cappella privata dei papi, oggi racchiusa nell’edificio della Scala Santa. La Sancta Sanctorum deve il suo nome al ricco tesoro di reliquie e dell’icona di Cristo considerata “acheropita”, non dipinta da mano umana, conservati qui. Secondo la tradizione la Scala Santa venne portato dall’imperatrice Elena, madre di Costantino, dalla Fortezza Antoniana di Gerusalemme a Roma insieme alle particole della croce ed alle altre reliquie che ricordavano la morte salvifica di Gesù Cristo e che oggi sono esposte nella chiesa di S. Croce in Gerusalemme a pochi minuti dal Laterano.
Si può visitare il Santuario della Scala Santa e salire pregando la Scala Santa stessa o prendendo una delle scale laterali che portano alla cappella Sancta Sanctorum.
Il luogo dove Domenico dimorò durante il secondo e il terzo soggiorno a Roma è sconosciuto, ma la testimonianza di Fra Guglielmo di Monferrato dice che “in quei giorni (lui parla del 1215, n.d.a.) Fra Domenico dimorava presso la curia romana”[11]; dato probabile visto che era venuto sia nel 1215 che nel 1216 insieme al suo vescovo. Lo stesso Fra Guglielmo depone al processo di canonizzazione sulla sua conoscenza di Domenico a Roma nella casa di Ugolino perché Domenico “spesso veniva dal predetto vescovo di Ostia”[12]. Una testimonianza che sembra essere confermata da Tommaso da Celano che colloca l’incontro tra Domenico e Francesco nella casa di Ugolino a Roma [13] che però non è più localizzabile.
Quando Domenico si recava alla basilica di S. Giovanni per pregare nella omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput (madre e capo di tutte le chiese dell’urbe e dell’orbe) la vedeva ancora nella sua maestosa semplicità, tipica per l’epoca tardo-antica e senza le aggiunte barocche e la trasformazione dell’interno da parte di Francesco Borromini. Una raffigurazione a S. Martino ai Monti mostra la basilica prima dell’intervento borrominiano dando un’impressione della chiesa che Domenico vedeva lungo i suoi soggiorni romani. Purtroppo la basilica non conserva nessuna memoria materiale delle visite di san Domenico – ma nella seconda capella della navata esterna meridionale si trova una pala d’altare di Giovanni Odazzi e Ignaz Stern raffigurante l’assunzione di Maria con i Santi Domenico e Filippo Neri. Inoltre si vede sotto la pala il resto di un affresco raffigurante la Dormitio Mariae che, prima di essere da lì staccato e collocata qui, si trovava nell’aula conciliare.
Nella capella del Crocifisso, a destra dell’entrata settentrionale, si trova la tomba di Innocenzo III, il primo papa che Domenico incontrò a Roma. Prima di tutto rimane il ricordo che in questa basilica Domenico sperimentava l’universalità della Chiesa alla quale sapeva mandato il suo Ordine per illuminare il mondo con la luce del Vangelo.
Riflessione
L’immagine del santo che con la sua fondazione sostiene la Chiesa come un pilastro l’edificio è nota anche nella tradizione francescana e racconta dell’importanza delle fondazioni degli ordini dei mendicanti che promuovevano un nuovo modello di vita religiosa che si presentava come alternativa a una Chiesa che correva il pericolo di perdersi nella propria opulenza. Tanti vescovi avevano dimenticato la loro responsabilità di guidare e tutelare le anime che loro erano state affidati. Vivevano da signori, trascuravano la formazione del clero e ancora di più la vita spirituale e i bisogni dei semplici fedeli. Per questo i gruppi eretici come i catari non avevano grandi difficoltà nel trovare seguaci fra il popolo minuto, fra quella gente che si sentiva attratta da una vita evangelica vera ma non la trovava più in una Chiesa i cui rappresentanti erano più interessati alle rendite dei loro benefici che alla salvezza delle anime.
Per Domenico una vita fuori della comunione con la Chiesa era impensabile. Anche perché si rendeva conto che l’insegnamento dei catari, un dualismo estremo che tanto disprezzava il corpo quanto esaltava la povertà, era lontano dal messaggio evangelico. Vivere povero, volontariamente povero, era per lui una via di seguire Gesù Cristo non un mezzo ascetico per liberarsi dal peso del corpo. Assumeva elementi della loro forma di vita per poter predicare in maniera credibile la Parola di Dio. Come san Paolo si è “fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” [14]. In questo suo approccio alla predicazione, nella compassione che ebbe per quelli che vivevano nell’errore, nel suo sguardo limpido di vedere anche le mancanze della Chiesa, nel suo coraggio di fidare nella forza della parola, non solo in quella di Dio ma anche in quella rivolta agli uomini e infine nel suo abbandono assoluto a Dio si trovano le fondamenta della sua spiritualità che formerà il suo Ordine.
Secondo una tradizione vigente nell’Ordine dei Predicatori fu proprio l’esperienza di una lunga notte a Tolosa trascorsa disputando con “l’eretico che li ospitava, il quale non potendo resistere alla sapienza e alla parola convincente di lui, ritornò alla fede”[15]. Domenico era convinto della verità del Vangelo – ma era altrettanto convinto che la verità si rivela nella contemplazione della parola, nell’ascolto e nel dialogo, nella ricerca della verità che non è un frasario di correttezze ma persona, incarnatasi in Gesù Cristo, via, verità e vita. Questa era la verità che proclamava Domenico. La sua missione era quella degli apostoli che il Signore aveva inviati ordinando loro: “predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino” [16]. I suoi contemporanei concordano che lui contemplava e studiava continuamente la Parola di Dio e “esortava i Frati dell’Ordine a studiare continuamente il Nuovo ed il Vecchio Testamento”[17]. Segno dell’importanza che Domenico dava alla Sacra Scrittura è anche il fatto che lui che rinunciava a ogni proprietà, “portava sempre con sé il Vangelo di Matteo e le Epistole di Paolo e tanto le studiava, che le sapeva quasi a mente”[18].
Sembra una banalità che il predicatore stesso dovesse mettere in pratica la parola predicata, ma purtroppo una verità che tanti predicatori avevano dimenticato. La chiesa come la sognò Innocenzo III secondo la leggenda “mostrava di fare grande ruvinamento” [19] – ed è ovvio che l’immagine dell’edificio di S. Giovanni in Laterano era solo un simbolo per la Chiesa, comunità universale dei fedeli. L’unità tra la parola e la sua predicazione si era spezzata. Bisognava ritornare alla verità profonda del Vangelo, seguire veramente Gesù Cristo, tornare all’essenziale che la Sacra Scrittura testimoniava. Questa era la strada di san Domenico: camminando nelle orme del Signore come gli apostoli – per essere sostegno della Chiesa e rinnovarla.
San Pietro in Vaticano
Un episodio, annotato da Costantino da Orvieto, riprende il tema della spiritualità apostolico-evangelica e lo lega alla missione universale dell’Ordine: la visita di Domenico alla basilica di S. Pietro e la visione degli apostoli Pietro e Paolo.
L’imponente basilica che l’imperatore Costantino fece erigere a cominciare all’incirca dal 318 era la meta di tutti i pellegrini che venivano a Roma per pregare presso la tomba dell’apostolo. Anche per questo è più che probabile che Domenico si sia recato in Vaticano per chiedere l’intercessione dell’apostolo per la sua fondazione. Proprio questo lo racconta Costantino:
“Conciò dunque fosse cosa che il servo di Dio mess. santo Domenico fosse a Roma, e ne la chiesa di mess. san Piero apostolo nel cospetto di Dio facesse orazione che Dio li degnasse conservare e dilatare l’Ordine, il quale la diritta mano di Dio piantava per lui; eccoti venire la mano di Dio sopra di lui. E vide per una cotale visione d’immaginamento subitamente venire a sè i gloriosi apostoli san Piero e san Paulo. De’ quali l’uno primamente, ciò fu messer san Piero, parea che li desse uno bastone, e san Paolo il libro, così dicendo: “Va, e predica, perciò che da Dio se’ eletto a questo officio.” Poco stante in poco di tempo gli parea vedere i suoi figliuoli per tutto el mondo sparti andare a due a due predicando la parola di Dio a li populi.”[20]
Costantino non vuole che ci sia nessun dubbio: dopo aver raccontato l’approvazione dell’Ordine da parte di Onorio III parla della visita di Domenico a S. Pietro in modo tale che all’approvazione del papa ne segue quella degli apostoli. Domenico stesso è chiamato a seguire la via degli apostoli, a mettersi in cammino come predicatore itinerante, il che viene ricordato nella consegna del bastone, arnese utile e necessario per ogni pellegrino. È chiamato a proclamare la Parola di Dio, il che viene ricordato nella consegna del libro, simbolo della Sacra Scrittura. La missione di san Domenico e del suo Ordine è una missione divina e universale. Nel “Va, e predica” che gli apostoli rivolgono a Domenico risuona il mandato divino ai profeti e ai discepoli di Gesù. Come loro anche i Frati Predicatori predicano spartiti per il mondo a i popoli.
Come già a S. Giovanni in Laterano neanche a san Pietro si è conservato un ricordo “materiale” della presenza di san Domenico. Solo un’altra raffigurazione a S. Martino ai Monti può darci l’impressione della basilica vaticana prima della sua distruzione. Si può immaginare che Domenico come tanti altri pellegrini abbia venerato la tomba dell’apostolo alla quale si poteva accedere attraverso due scale che portavano a una cripta semicircolare che corrispondeva all’incirca all’attuale confessio che permette oggi ai pellegrini di pregare alla tomba di san Pietro.
Nel coro, a destra del monumentale reliquario della Cattedra Petri, si trova la scultura marmorea di san Domenico, un’opera di Pierre Legros (1706). Sembra che egli e san Francesco, la cui statua si trova sul lato opposto, veglino insieme sulla cattedra dell’apostolo per ricordare che una Chiesa che vuole essere credibile deve vivere il Vangelo nella povertà e predicarlo nella verità.
Domenico parte da Roma nel marzo del 1217 per ritornare in Francia. Dopo alcuni mesi trascorsi a Tolosa e dintorni si mette nuovamente in viaggio per Roma dove arriva nelle prime settimane del 1218. Nuovamente si incontra con il papa per chiedergli sostegni spirituali ed istituzionali che consolidassero la giovane comunità, dopo aver mandato i frati a Parigi e in Spagna. L’11 febbraio 1218 Onorio III consegna una nuova bolla in cui raccomanda i frati dell’Ordine dei Predicatori (fratres ordinis praedicatorum) ai vescovi e chiede loro di accoglierli nelle proprie diocesi. Questa bolla riporta la prima volta il nome dell’Ordine voluto dal suo fondatore.
Domenico si fermò per alcuni mesi a Roma e predicò nella Quaresima del 1218 in diverse chiese della città. Durante questo soggiorno conobbe anche Reginaldo d’Orleans che sarebbe diventato uno dei primi frati a Bologna, città nella quale Domenico aveva già mandato due frati che lo raggiunsero a Roma dopo che erano giunti dalla Spagna per incontrarlo nella città eterna. Nel maggio del 1218 si mise in cammino verso Bologna per dedicarsi alla nuova fondazione del convento e sollecitare i frati nella predicazione fra gli studenti dell’università più antica dell’occidente.
Dopo aver trascorso qualche tempo a Bologna, Domenico si mise nuovamente in cammino per un viaggio lungo che lo portò prima in Spagna e poi a Parigi. Solo nell’autunno del 1219 si diresse nuovamente verso Roma per incontrare papa Onorio III che si trovava in quel periodo a Viterbo. Voleva infatti presentare al papa gli sviluppi dell’Ordine e parlagli delle difficoltà che i frati incontravano nonostante le raccomandazioni papali. Durante questi incontri il papa affidò a Domenico un altro progetto a lui caro, la riforma dei monasteri di Roma.
Già Innocenzo III aveva previsto una riforma della vita monastica a Roma e voleva radunare le monache di Roma in un unico monastero. I monasteri esistenti, non più di sette per un numero totale di forse ottanta monache, erano in buona parte amministrati dalle famiglie delle monache. Alla vita delle monache mancava sia la struttura della vita regolare che un fondamento spirituale. Onorio III aveva ripreso il progetto e desiderava che Domenico riunisse le monache dei diversi conventi in un monastero nuovo dando loro non solo una nuova regola ma una nuova prospettiva spirituale per vivere la loro vocazione contemplativa. Per questo il 17 dicembre del 1219 Onorio III diede a san Domenico la chiesa e il monastero di S. Sisto che diventò in seguito la prima dimora dei Frati Predicatori a Roma. Nell’aprile 1220 però Domenico dovette partire per Bologna per il capitolo generale dell’Ordine e si fermò in Italia settentrionale sino alla fine dell’anno.
Domenico ritornò a Roma nel dicembre 1220 e si stabilì a S. Sisto per completare la riforma dei monasteri. Dopo la fine dei lavori e l’insediamento delle monache lì nel febbraio del 1221 i frati si spostarono a S. Sabina all’Aventino.
San Sisto
Fino ad oggi il convento di S. Sisto conserva delle memorie della presenza di san Domenico che venne ad abitare qui con i suoi frati per più di un anno, il tempo che serviva per terminare i lavori del nuovo monastero perché potesse ospitare una comunità di monache. Della presenza di Domenico a S. Sisto siamo ben informati soprattutto dai ricordi di suor Cecilia di Roma [21], che era una delle prime monache del nuovo monastero.
L’attuale chiesa di S. Sisto conserva ancora gran parte della struttura medievale che a sua volta era una trasformazione della basilica tardoantica, il titulus Crescentiana, la cui fondazione risale all’epoca del pontificato di papa Anastasio I (399-401). Era papa Innocenzo III che fece trasformare l’antica struttura riducendone le dimensioni e alzando il pavimento per adattarlo al livello stradale. A quell’epoca risale anche la costruzione del monastero che fu completato quando Domenico venne a dimorarvi. Nel convento sono ancora visibile parti del chiostro, la sala capitolare e il refettorio.
Il refettorio
Sarebbe stato proprio qui, nel refettorio di S. Sisto, dove si sarebbe svolto “il miracolo dei pani” ossia l’arrivo dei pani per sfamare i frati grazie alla divina provvidenza. Secondo un’altra tradizione, il miracolo dei pani viene ricordato anche nel refettorio del primo convento a Bologna, S. Maria della Mascarella [22]. Suor Cecilia che non era presente in quell’occasione racconta una storia veramente meravigliosa e, considerando le altre fonti, un po’ esagerata. Il nucleo di tutti questi racconti è però sempre lo stesso: I frati che erano stati mandati a chiedere le elemosine non erano riusciti a raccogliere abbastanza pani e altre vivande per la cena della comunità. Tornati lo dissero a Domenico che li assicurava che il Signore si avrebbe preso cura di loro e invitava i frati a recarsi nel refettorio. E lì, racconta suor Cecilia,
“il Beato Padre diede la benedizione della mensa e, dopo che i Frati si furon seduti, Fra Enrico de Roma cominciò la lettura consueta. Intanto il Beato Domenico si era messo a pregare a mani giunte. Ed ecco – secondo quanto egli aveva promesso per ispirazione della Spirito Santo – apparire all’improvviso in mezzo al refettorio, inviati dalla Divina Provvidenza, due giovani bellissimi, carichi ciascuno, davanti e di dietro, die due bianche tovaglie piene di pane. Cominciando a servire dagli inferiori, uno da lato destro e l’altro a sinistra, diedero a ciascun Frate un pane intero di mirabile bellezza. Quando poi giunsero al Beato Domenico e gli ebbero date anche a lui un pane intero, fattagli riverenza di capo, scomparvero all’improvviso e dove andassero e da dove fossero venuti fino ad oggi nessuno lo sa”[23].
La sala capitolare
Nella sala capitolare ricordano tre degli affreschi del pittore domenicano Jacinthe Besson (1852-1854) i miracoli di Domenico legati al monastero, soprattutto le resurrezioni a lui attribuite e raccontate da suor Cecilia. Il primo miracolo riportato da lei, Come il Beato Domenico risuscitò il figlio di una vedova, fa presente che Domenico era solito predicare nelle chiese romane, il che avvenne anche nella Quaresima del 1221. Il miracolo prende inizio nella chiesa di S. Marco, vicino al Campidoglio. Una donna romana
“divorata dal desiderio di sentire dalla sua bocca la parola di Dio, lasciò solo il figlioletto ammalato e andò in quella chiesa ad ascoltare la predica. Quando tornò a casa, a predica finita, trovò morto il bambino. La povera madre, impietrita dal dolore ma nascondendo la sua sofferenza, fiduciosa nella potenza di Dio e nei meriti del Beato Domenico, facendosi accompagnare dalle ancelle andò da lui, portando con sé il figliolo morto. Il Beato Domenico dimorava in quel tempo con i suoi Frati presso la chiesa di S. Sisto e, siccome si stava adattando il Convento per ricevervi le Suore e quindi la clausura era aperta agli operai, potevano entrarvi anche le altre persone. Entrò adunque (quella donna) e lo trovò in piedi vicino alla porta del Capitolo come se stesse aspettando qualcosa. Appena lo vide, pose il cadaverino ai suoi piedi e piangendo si mise a supplicarlo in ginocchio di renderle suo figlio. Allora il Beato Domenico, mosso a compassione da quel profondo dolore, si scostò un poco da lei raccogliendosi in preghiera; poi si alzò, si accostò al piccino facendo su di lui il segno della croce e infine, prendendolo per mano, lo sollevò da terra vivo e lo restituì sano e salvo alla madre, ingiungendole però di non parlare della cosa con nessuno”[24].
Ben documentata dalle fonti agiografiche è altresì la resurrezione del nipote del Cardinale Stefano di Fossanova, Napoleone. Il rapporto più antico si trova nel libellus di Giordano di Sassonia che, non essendo stato presente, l’aveva appreso da fra Tancredi:
“un giovane parente del Signor Cardinale Stefano di Fossanova, mentre per divertimento si dava imprudentemente a una corsa frenata a cavallo, fece una gravissima caduta e lo stavano trasportando piangendo. Sembrava mezzo morto o, per il suo stato di evidente incoscienza, anche morto del tutto. Intorno al defunto crescevano i lamenti, quando sopraggiunse Maestro Domenico. Con lui c’era anche Fra Tancredi, uomo buono e fervoroso, che fu per qualche tempo Priore di Roma, dal quale io ho appreso questa narrazione. Costui disse a Domenico: “Perché ti nascondi? Perché non preghi il Signore? Dov’è ora la tua carità per il prossimo? Dove la tua fiducia in Dio?” Spronato da tali esortazioni del fratello e vinto da un sentimento ardente di compassione, fece portare il giovane lontano dalla confusione, in una camera chiusa e per virtù delle sue preghiere gli rese il calore della vita e lo riportò sano e salvo all’aperto, davanti a tutti”[25].
La resurrezione di un maestro artigiano viene raccontato solo da Costantino da Orvieto [26] ed è stata raffigurata dal Besson nella sala capitolare per lo stretto legame al convento di S. Sisto.
I tre affreschi restanti raffigurano l’apparizione degli apostoli Pietro e Paolo a Domenico, il suo incontro con Francesco e la consegna della corona del rosario. Suor Cecilia parla anche di altri miracoli come guarigioni e prove superate da Domenico che avvenivano a S. Sisto o in altri luoghi di Roma.
San Marco
San Marco è legata non solo alla resurrezione del figlio della vedova ma conserva la memoria alla predicazione di san Domenico. Nonostante le modificazioni dovute all’integrazione della chiesa in Palazzo Venezia, essa conserva quasi intatto il mosaico absidale che risale al nono secolo ed è lo stesso che ha visto Domenico quando veniva a predicare. Un affresco in una delle cappelle della navata destra ricorda il miracolo avvenuto però a S. Sisto.
Porta Asinaria
Trovandosi oggi un po’ più in basso dell’attuale Porta di S. Giovanni, la cosiddetta Porta Asinaria risale alla porta romana originale della cinta muraria voluta dall’imperatore Aureliano. Nel medioevo una parte del complesso, una delle torri, serviva come cella per una reclusa, suor Buona, la quale fu guarita da S. Domenico da una grave malattia. [27]
Sant’ Anastasia
Dietro la chiesa nelle vicinanze del Circo Massimo si trovava la cella di un’altra reclusa, suor Lucia. Lei soffriva probabilmente di una grave infezione del braccio e fu guarita da san Domenico dopo che lui aveva visto il braccio e benedetta la reclusa. [28] Una via adiacente la chiesa ma oggi solo in parte reperibile portava da lì a S. Sisto e “il Beato Domenico, recandosi a S. Sisto, passava frequentemente di lì” [29].
Riflessione
Avvicinandosi alla persona di Domenico i suoi contemporanei o coloro che scrivevano su di lui pochi anni dopo la sua morte sceglievano diversi approcci. Giordano, nel libellus, cerca di tracciare i grandi lineamenti della fondazione dell’Ordine mostrando il significato di Domenico per la sua fondazione e le sue virtù in vista del processo di canonizzazione. Lo stesso vale per i testimoni del processo che mettono in evidenza la sua religiosità profonda, la vita di preghiera e l’empatia con cui andava incontro a chiunque. Suor Cecilia [30] racconta i miracoli. Chi però si avvicinasse ai suoi racconti indagandoli solo sotto l’aspetto storico-scientifico non se accorgerebbe del significato più profondo di questi miracoli. Raccontando i miracoli suor Cecilia fa vedere la vita di un uomo di cui ha conosciuto la santità e intuito una vicinanza straordinaria a Gesù Cristo che con la sua fede e la sua preghiera riportava alla vita persino i morti.
La meta dell’Ordine che fu fondato per la predicazione e la salvezza delle anime si realizza nella vita del suo fondatore le cui parole e azioni portano questa salvezza realmente alle persone. Il miracolo vuole suscitare stupore e meraviglia per attirare l’attenzione dei lettori, vuole rendere in un certo qual modo “visibile” ciò che per sua natura appartiene alla sfera del trascendente.
In base a questa riflessione sarebbe auspicabile che il miracolo portasse a chiedersi in che modo coloro che lo ammirano possono fare dei miracoli anche loro. Seguire Cristo non consiste nel compiere azioni soprannaturali in seguito ai suoi miracoli ma nel mettere in pratica la sua parola portando la salvezza e la vita a tutti gli uomini che ne hanno bisogno. Il miracolo si compie dove un malato viene assistito, dove si sente compreso. Il miracolo si compie quando un uomo solo si accorge di avere un amico accanto che condivide le sue ansie e le sue preoccupazioni e trova parole che lo incoraggiano. È la fede che ci fa vedere i miracoli della vita e che ci sollecita a compierli a nostra volta.
Santa Maria in Tempulo
Durante il suo ultimo soggiorno a Roma Domenico si occupava innanzitutto della riforma dei monasteri romani affidatagli un anno prima. Visitava i monasteri romani e cercava di convincere le monache a fondare una nuova comunità. Uno di questi monasteri si trovava a solo 300 metri da S. Sisto, S. Maria in Tempulo. Oggi si vedono solo i resti di una chiesa, già da anni sconsacrata, con alcuni spazi annessi.
Nel passato, oltre ad ospitare da secoli una comunità di monache, S. Maria in Tempulo era conosciuta per conservare una delle icone più antiche di Roma, la prima che secondo una tradizione locale sarebbe stata dipinta da san Luca e probabilmente di origine costantinopolitana. Le monache erano fiere di custodire quest’icona e suor Cecilia si ricorda come la badessa legava la disposizione sua e delle sue monache di cambiare monastero proprio al destino dell’immagine. Lei “aveva fatto voto di entrare lei e tutte le sue Suore, a patto che l’immagine della Beata Vergine restasse con loro nella chiesa di S. Sisto. (…) Il Beato Domenico aveva accettato volentieri quella condizione” [31] e lui stesso portò, un giorno dopo l’ingresso delle monache a S. Sisto [32], l’icona che “fu collocata con molta devozione nella chiesa delle Suore, dove fino ad oggi rimane insieme ad esse, a lode del Signor Gesù Cristo, cui si deve onore per tutti i secoli dei secoli.” [33]
Santa Sabina all’Aventino
Dopo il trasloco definitivo della monache a S. Sisto, i frati, che fino ad allora avevano dimorato là, si trasferirono a S. Sabina. Secondo la tradizione Domenico era già da qualche tempo in trattative con Onorio III per chiedergli una sede per i frati. Dato che il documento della donazione di S. Sabina ai Frati Predicatori è stato stipulato soltanto nel 1222, non resta altro che ipotizzare su questa prima fase della vita dei frati sull’Aventino. Partendo dall’ingresso delle monache a S. Sisto i frati dovevano spostarsi intorno la prima domenica di Quaresima del 1221 occupando a S. Sabina i locali già esistenti sopra il nartece della basilica in cui si trovano oggi la cella di san Domenico e il cosiddetto dormitorio.
Basilica
Entrando nella basilica dalla porta laterale si nota un affresco sopra l’antica porta d’ingresso del convento verso il nartece. L’episodio raffigurato si riferisce a un racconto di suor Cecilia il quale, oltre di mostrare che la provvidenza divina accompagnava Domenico e i suoi in ogni momento, fa vedere che i frati si erano trasferiti sull’Aventino. Dopo una serata trascorsa a S. Sisto si era fatto tardi e le suore temevano di lascar ritornare Domenico nel mezzo della notte. Ma egli replicò alle loro esortazioni: “Il Signore vuole assolutamente ch’io vada: manderà un suo angelo ad accompagnarci” [34]. E usciti dal convento (S. Sisto) li aspettava già
“un bellissimo giovane, il quale aveva un bastone in mano come se fosse pronto per il viaggio. Allora il Beato Domenico mise i suoi compagni fra sé e quel giovane, mettendosi a camminare in terza posizione. Giunta alla porta della chiesa (S. Sabina), la trovarono chiusa e accuratamente sprangata; ma quel giovane, che li aveva preceduti per strada, si accostò ad un lato della porta e immediatamente si aprì”[35].
La basilica di S. Sabina ha conservato in gran parte il suo aspetto tardo-antico e alto medievale il che vale soprattutto per l’architettura armoniosa che rispecchia i canoni della classicità romana. In questo luogo san Domenico predicava e pregava, consegnando se stesso e la sua fondazione nelle mani di Dio. Quanti l’hanno conosciuto concordano che era fervente e perseverante nella preghiera e che veniva nella chiesa soprattutto di notte per vegliare e pregare. Anche i racconti agiografici e leggendari ricordano la sua preghiera. Una di queste leggende è particolarmente legata a S. Sabina. Racconta Geraldo di Frachet:
“Quando l’uomo santo una notte, prostrato in terra, il diavolo, avendo invidia alla sua orazione, gittò un gran sasso dal tetto della chiesa per quello turbare dalla istanzia della orazione. E venne questo sasso tanto appresso a lui che toccò il capuccio della sua cappa; e perseverando l’uomo santo immobile nella orazione, il demonio subito con terribile voce confuso si partì.”[36]
Quella pietra, la cosiddetta “pietra del diavolo” [37] viene ancora conservata nella basilica e si trova oggi accanto alla nicchia con l’icona del santo. Nel centro della schola cantorum un’iscrizione sulla lapide centrale segna il luogo di preghiera di san Domenico. Un’altra iscrizione più antica sulla stessa lapide ricorda che lì erano sepolte le sante martiri Sabina e Serafina nonché altri martiri venerati nella basilica. Il sarcofago con le loro reliquie si trova oggi sotto l’altare maggiore. Le incrinature nella lapide [38] svegliavano ancora una volta la fantasia della gente nei tempi antichi che le considerava i danni provocati dalla pietra scagliata dal diavolo.
Dormitorio
Sopra il nartece della basilica si trovano gli ambienti che i frati andarono ad abitare nel 1221. La costruzione della scala monumentale ha distrutto gran parte della costruzione medievale tranne la cella di san Domenico e il cosiddetto dormitorio. Il luogo è stato trasformato in museo intorno il 2010 ma sono ancora visibili gli archi della pentafora del nartece e i resti di una scala che portava alla vedetta del frate portinaio perché lui potesse vedere chi avesse suonato alla porta del convento. Il dormitorio è legato a una seconda visione di san Domenico, stavolta raccontata da suor Cecilia. Una sera in cui si trovava nel dormitorio Domenico vide tre donne: una con un secchiello, l’altra con un aspersorio e la terza che benediceva i frati facendo il segno della croce su di essi, aspergendoli con l’aspersorio che la seconda donna gli porgeva. Al termine della benedizione Domenico la avvicinò e la chiese chi fosse. Ed ella rispose: “Io sono colei che voi invocate ogni sera [39] e quando dite Eja ergo, advocata nostra, io mi butto in ginocchio davanti al mio Figlio per la conservazione di codesto Ordine” [40].
Fin dall’inizio Domenico e i suoi frati avevano affidato l’Ordine alla protezione della Madre di Dio il che emerge anche dalla seconda parte di quel racconto che sarà citato più avanti.
Cella
Nonostante la trasformazione della cella in cappella, progettata da Gian Lorenzo Bernini, la cella vera e propria ricorda ancora le celle medievali dei frati e rispecchia lo spirito di semplicità e modestia di san Domenico che doveva contrassegnare il suo Ordine. La tradizione vuole che qui avvenne l’incontro tra Domenico, Francesco e il carmelita Angelo, ricordato nell’affresco della volta. Il nucleo vero della faccenda è da cercarsi nelle diverse fonti che parlano di un incontro tra Domenico e Francesco; secondo il biografo di san Francesco, Tommaso da Celano, quell’incontro sarebbe avvenuto nella casa del cardinale Ugolino di Ostia a Roma che era in contatto con tutt’e due i fondatori degli Ordini.[41] Probabilmente dal racconto di Tommaso la tradizione passò dalla casa di Ugolino al convento di S. Sabina visto che i due luoghi erano nella stessa città.
Sopra la finestra è appeso un piccolo bassorilievo non appartenente all’arredo originale della cella-cappella ma evocando ancora una volta la venerazione di Maria nell’Ordine dei Predicatori e la relazione particolare con Lei che l’Ordine ha saputo conservare attraverso i secoli.
“Il Beato Domenico (…) fu rapito in ispirito davanti a Dio e vide il Signore e la Beata Vergine, seduta alla sua destra, rivestita – a quanto gli sembrava – di un mantello color zaffiro. Guardandosi attorno vide davanti a Dio rappresentanti di tutti gli Ordini Religiosi, ma del suo non scorse nessuno; per la qual cosa cominciò a piangere amaramente e, fermatosi lontano, non osava avvicinarsi al Signore e a sua Madre. Fu la Madonna a fargli cenno con la mano di accostarsi a lei; ma egli non osò muoversi fino a tanto che anche il Signore non lo ebbe chiamato. Si accostò allora tutto piangente e si inginocchiò davanti a loro. Il Signore li invitò ad alzarsi e, quando si fu alzato, glie chiese il perché di quel pianto sconsolato. “Piango così – rispose – perché vedo qui rappresentanti di tutti gli Ordini, ma del mio non vedo nessuno”. Allora il Signore: “Vuoi vedere il tuo Ordine?”. E quello tremante: “Sì, o Signore”. Allora il Signore, ponendo una mano sulla spalla della Beata Vergine, si rivolse nuovamente al Beato Domenico: “Il tuo Ordine io l’ho affidato a mia Madre”. Poi soggiunse: “Ma lo vuoi proprio vedere?”. Rispose il Beato Padre: “Certo, o Signore”. La Beata Vergine spalancò il mantello di cui sembrava rivestita e lo stese davanti al Beato Domenico, al quale sembrò tanto grande da ricoprirne tutta la patria celeste e sotto di esse vide una moltitudine immensa dei suoi frati. Inginocchiandosi il Beato Domenico ringraziò allora Dio e la Beata Maria sua Madre. E la visione scomparve.”[42]
In quanto un luogo altamente simbolico la cella invita a una preghiera al termine dell’itinerario romano dei luoghi di san Domenico, chiedendo la benedizione del Padre e l’intercessione di santa Maria e san Domenico.
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione,
ma liberaci dal male.
Perché tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli.
Amen.
Sub tuum praesídium confúgimus,
sancta Dei Génetrix;
nostras deprecatiónes ne despícias
in necessitátibus;
sed a perículis cunctis
líbera nos semper,
Virgo gloriósa et benedícta.
Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio,
santa Madre di Dio:
non disprezzare le suppliche di noi
che siamo nella prova,
e liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta.
O lumen Ecclesiae,
Doctor veritatis,
Rosa patientiae,
Ebur castitatis,
Aquam sapientiae
propinasti gratis,
Praedicator gratiae
nos junge beatis.
O luce della Chiesa,
Dottore di verità,
Rosa di pazienza,
Avorio di castità,
gratuitamente
hai effuso
l’acqua della sapienza:
predicatore della grazia,
ricongiungi anche noi
tra i beati del cielo.
(Fr. Philipp Johannes Wagner OP, Roma)
Bibliografia
Note
[1] Libellus 40-41. Per: Il „Libellus principiis Ordinis Praedicatorum“ del Beato Giordano di Sassonia No. 40-41, in: Lippini, Pietro (ed.), San Domenico visto dai suoi contemporanei, Bologna 21982, 40-41.
[2] Concilio Lateranense IV, capitolo I. in: http://www.intratext.com/IXT/ITA0138/_P1.HTM (25.5.2020).
[3] Ibid, capitolo X.
[4] Ibid.
[5] Ibid, capitolo XIII.
[6] Leggenda 39. Per: Costantino da Orvieto, Leggenda di San Domenico Fondatore dell’Ordine de’ Frati Predicatori, ed. Pietro Ferrato, Venezia 1867, p. 39.
[7] Libellus 42.
[8] L’appartenenza di Cencio alla famiglia Savelli è oggi fortemente contestata. Cf. Carocci, Sandro / Vendittelli, Marco, Onorio III, in: Enciclopedia dei Papi, http://www.treccani.it/enciclopedia/onorio-iii_(Enciclopedia-dei-Papi)/ (25.5.2020). Per questo la donazione di S. Sabina ai Frati Predicatori non può essere spiegata come donazione di una parte della proprietà familiare del papa (intorno all’attuale giardino degli aranci è ancora visibile la cinta muraria della rocca Savelli).
[9] Libellus 45.
[10] Cf. Lippini, p. 66, n. 86.
[11] Processo Bologna 12. Per: Atti del processo di Bologna, in: Lippini, Pietro (ed.), San Domenico visto dai suoi contemporanei, Bologna 21982, p. 262
[12] Ibid.
[13] Cf. Tommaso da Celano CIX per: Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco d‘Assisi, capitolo CIX, in: http://www.Santuariodelibera.it/FontiFrancescane/framevitaseconda.htm (25.5.2020).
[14] Cf. 1 Cor 9,22.
[15] Libellus 15.
[16] Mt 10,8.
[17] Processo Bologna 29.
[18] Ibid.
[19] Leggenda 39.
[20] Leggenda 43-44.
[21] Suor Cecilia aveva diciassette anni quando conobbe S. Domenico e dettava i suoi ricordi a una certa suor Angelica in età avanzata, probabilmente poco prima del 1288 (cf. Lippini p. 170-172). “I Miracoli del Beato Domenico” risentono da una parte la devozione dell’epoca e contengono probabilmente delle esagerazioni e alcune incertezze ma ciò nonostante sono una fonte importante per quanto riguarda i soggiorni di Domenico a Roma intorno gli anni 1220 e 1221.
[22] Una panoramica breve sulle diverse versioni del “miracolo dei pani” si trova in: Lippini, p. 193 n. 14.
[23] Miracoli 3. Per: I miracoli del Beato Domenico di Suor Cecilia, in: Lippini, Pietro (ed.), San Domenico visto dai suoi contemporanei, Bologna 21982, pp. 190-191.
[24] Miracoli 1.
[25] Libellus 100.
[26] Cf. Legenda 56.
[27] Cf. Miracoli 12.
[28] Cf. Miracoli 13.
[29] Ibid.
[30] Ma non solo lei. Lo stesso vale in parte anche per Giordano nel libellus, Costantino nella Leggenda e Gerardo di Frachet nelle vitae fratrum.
[31] Miracoli 14.
[32] Il trasloco avvenne nella prima domenica di Quaresima, 28 febbraio 1221.
[33] Miracoli 14. Oggi l’icona non si trova più a S. Sisto benché sia sempre custodita dalle monache domenicane che la presero con sé quando si trasferirono al convento dei SS. Domenico e Sisto nel 1575 e da lì al convento di S. Maria del Rosario sul Monte Mario nel 1931.
[34] Miracoli 6.
[35] Ibid. Miracoli.
[36] Vitae fratrum 77.
[37] In realtà si tratta di un antico peso romano che fu trovato probabilmente nelle vicinanze del foro boario che si trovava al di sotto dell’Aventino.
[38] Le incrinature sono dovute allo spostamento della lastra da parte dell’architetto Domenico Fontana nel sedicesimo secolo.
[39] Recitando o cantando l’antifona Salve Regina.
[40] Miracoli 7.
[41] Cf. Tommaso da Celano CIX.
[42] Miracoli 7.
L’orizzonte è sempre più ampio e completo se lo osserviamo da un punto alto. Così la vita, se la osserviamo dal suo compimento. A Rieti Domenico fu canonizzato. All’inizio del nostro percorso sulle orme dei suoi passi, il compimento di un sogno, di un progetto, di sfumature solo intraviste eppure desiderate, si fa più vicino. Perché è più facile affrontare le fatiche e le sfide della vita, se si tiene fissa nel cuore la meta. Ma quale meta? Per Domenico fu la risposta alla ricerca di un senso profondo: l’incontro con la Verità. Non, però, come qualcosa di astratto. La Parola di Dio si è fatta “bambino” in Cristo: ciò che cerco, forse, è nascosto nei gemiti di piccole intuizioni soffocate, talvolta, dalle paure, dalle sconfitte, dalle ferite, dall’orgoglio. Ciò che cerco, forse, lo troverò aprendo e ascoltando la Parola. Di questa, Domenico si innamorò: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore” (Geremia 15,16).
All’inizio del cammino, in questa prima tappa, guardo la vita di Domenico a partire dal suo compimento. A partire dalla sua santità. Provo a guardare anche la mia vita con uno sguardo più profondo. Ora, è vero, non comprendo il senso di tutto. Un giorno, però, visti “dall’alto”, tutti gli avvenimenti, gli incontri, le scelte, le gioie e i dolori, troveranno un senso più compiuto. La Provvidenza, intanto, mi accompagna nel cammino. Non mi farà mancare la luce, il pane e una mano tesa, lungo il percorso. Domenico ha avuto fiducia in Dio, anche quando tutto sembrava remare contro la strada che sentiva di dover intraprendere. Anche quanto la meta intravista sembrava troppo lontana. Una chimera! L’illusione di un giovane troppo sognatore. Di un giovane che credeva nell’uomo: nella sua intelligenza, nel suo cuore. Nel silenzio, nell’ascolto della vita e della storia, Domenico ritrovò se stesso e la via da percorrere.
A Rieti incontriamo anche una figlia di Domenico. Colomba era innamorata della vita. Amava le persone, la natura, l’arte, la danza. Era una donna coraggiosa, che si adoperò con tutte le forze per portare la pace a Perugia, dove aveva fondato un monastero. Il suo sorriso alla vita non era una semplice ed epidermica allegria: era alimentato da una silenziosa penitenza, da un amore intenso per il Signore e per tutti i Suoi figli. “E pensare”, scriveva commosso il suo padre spirituale, fr. Sebastiano Angeli OP, “che era lei ad averci riportati alla buona strada, noi disgraziati e peccatori”. La Beata Colomba è per noi un invito a riscoprire quella mitezza che, in lei, celava una straordinaria forza d’animo, ma anche la sua attenzione agli ultimi e la continua e paziente opera pacificatrice, che mai cedette allo spirito di parte. Un messaggio più che mai eloquente oggi, in un mondo fratturato dalle guerre, dalle lotte per il potere, dall’egoismo e dall’odio. Colomba divenne fecondo strumento di pace e canale privilegiato di comunione attraverso la valorizzazione dei doni tutti femminili della sensibilità, dell’equilibrio, della concretezza, della fortezza, dell’amorosa creatività. E anche del coraggio, della lungimiranza, della capacità di attenzione e cura. Forse, davvero, la donna è quel “punto alto” che unisce l’inizio con la fine, le intuizioni con il compimento dei sogni, la vita e la morte. Che concilia gli estremi. E che ci fa vedere la nostra esistenza da un punto di vista più creativo, nuovo, pieno di luce e di speranza. Ecco perché il Padre disse a Caterina da Siena che Domenico “fu uno lume che Io porsi al mondo col mezzo di Maria” (S. Caterina da Siena, Dialogo della Divina Provvidenza CLVIII, 478-479). Chi più della Madre di Gesù era adatta ad unire cielo e terra, e a riportare tutti gli uomini nel Cuore di Dio? (Monache Domenicane – Pratovecchio)
Chiesa di San Domenico
La chiesa di S. Domenico, annessa al convento dell’ordine dei Predicatori (Domenicani) di Rieti, fu per secoli la Basilica più ricca ed artisticamente interessante della città. Fu dichiarata formalmente eretta, dalla provincia romana, nel 1268. Nel corso degli anni la chiesa venne abbandonata causando la perdita della quasi totalità delle decorazioni tanto che nel 1779, il priore padre Scalmazzi, lamentando lo stato in cui si trovava, propose il suo abbattimento e la successiva riedificazione in forme più moderne e in stile barocco. In seguito alla rivoluzione francese, la chiesa dei Domenicani fu chiusa (18 Giugno 1810). Con l’unità d’Italia, i padri Domenicani furono cacciati da Rieti così il Convento di S. Domenico venne destinato a caserma dei militari. La Chiesa, in particolare, venne adibita ad ospitare le salmerie: così profanata, viene interdetta al culto nel 1890.
Dal XIII al XVIII sec. la chiesa costituì un immenso cantiere, scandendo le tappe evolutive dell’arte sacra secondo la tradizione consolidata, dal Romanico al Gotico, dall’età della controriforma all’età barocca. Attualmente la struttura esterna, dopo i lavori di ristrutturazione, è semplice, le facciate sono formate da blocchi di travertino. Su quella principale si apre il portone d’ingresso in legno, sormontato da un arco a tutto sesto e da un timpano ai lati del quale si aprono due piccole finestre. Fino alla fine del ‘700 sopra tale portale si apriva un rosone al posto del quale, oggi, è visibile un ampio finestrone. L’interno è costituito da un’unica e ampia navata.
La canonizzazione di Domenico di Guzman avvenne a Rieti nel 1234. Le fonti sono praticamente unanimi nell’indicare la data dell’avvenimento e della città. Nel luglio di quell’anno, infatti, Gregorio IX proclamò la santità del Santo Fondatore dell’Ordine dei Predicatori, lo annoverò nel catalogo dei santi e ne fissò la festa liturgica il 5 agosto, vigilia dell’anniversario della sua morte.
Note
[Fonte: http://www.prefettura.it/rieti/contenuti/Chiesa_di_san_domenico_rieti-78257.htm]
http://www.frontierarieti.com/la-canonizzazione-di-san-domenico-a-rieti/
Vicaire: pp. 667-668
Bolla di canonizzazione Fons Sapiantiae
B. Astur, Colomba da Rieti, Edizioni Cateriniane, Roma 1967]
A Viterbo, Onorio III donò a Domenico San Sisto, perché vi fondasse un monastero di monache: donne che, attraverso l’itineranza del cuore, avrebbero accompagnato con la preghiera i loro fratelli lungo le strade del mondo perché la luce della Parola potesse raggiungere il cuore di ogni persona.
Domenico era un grande camminatore. Quando partì insieme al suo Vescovo verso la Danimarca, semplicemente per combinare un matrimonio tra la figlia del re di Castiglia e una giovane nobile di quel Paese, egli non sapeva che quel viaggio sarebbe stato fallimentare quanto al raggiungimento dell’obiettivo. Eppure, su quella strada, lungo quel cammino, la sua vita sarebbe cambiata. Per sempre.
Riflessione
Il viaggio cambia la vita. Noi progettiamo qualcosa, e poi succede qualcosa di diverso, di inaspettato. Spesso, qualcosa di bellissimo. A volte sbagliamo strada, e magari facciamo incontri che non avremmo fatto sulla strada giusta. Qualcosa di inatteso ci sorprende, ci fa udire un richiamo interiore che non avevamo mai percepito.
Il viaggio trasforma la vita. Soprattutto se si sceglie di camminare dentro la propria anima, per visitare i luoghi interiori più sconosciuti, che a volte ci sembrano paurosi, o minacciosi, e invece possono essere un luogo di grazia e di salvezza. Visitare il nostro cuore significa essere pronti a vedere ciò che non va, ma anche ciò che è meraviglioso. Ma abbiamo bisogno di uno sguardo nuovo, diverso.
Domenico ebbe la capacità di lasciarsi interpellare dagli avvenimenti esterni, dagli incontri casuali della vita, e di lasciarsi stravolgere i progetti, i sogni. Intraprendendo vie completamente nuove.
A Viterbo visse il suo noviziato il Padre Henri Dominique Lacordaire op, grande artefice, nel XIX secolo, della rinascita dell’Ordine, del quale ebbe a dire: “Niente di più nuovo, niente di più adatto ai nostri tempi”. Perché un Ordine in ascolto della storia – sull’esempio del fondatore – non potrà mai finire. Un Ordine in cammino, sperimenterà sempre la bellezza di essere sorpresi, accompagnati, mandati e custoditi dalla tenerezza e dalla provvidenza di Dio.
Altri santi o figure importanti dell’Ordine a Viterbo: Lacordaire, Danzas, Cormier.
(Monache Domenicane – Pratovecchio)
Santa Maria della Quercia
Durante i mesi di Luglio ed Agosto del 1467 si abbattè su tutto l’Alto Lazio una pestilenza e molti devoti accorsero sotto la quercia ad invocare pietà. Si riunirono a pregare circa 30.000 persone e dopo nemmeno una settimana, inspiegabilmente, la peste cessò.
A seguito di questi avvenimenti, il 20 Settembre 1467 quasi 40.000 abitanti dell’Alto Lazio, con a capo il Vescovo di Viterbo Pietro Gennari, tornarono a ringraziare la Madonna e, con le numerose offerte fatte dalle varie comunità, si decise di costruire una chiesa. Papa Paolo II diede l’autorizzazione a realizzare una piccola chiesa affidata ai padri Gesuati del Beato Colombini ma appena due anni dopo, nel 1469, la custodia della Sacra immagine passò ai Padri Domenicani e grazie all’enorme quantità di offerte dei devoti si decise di costruire una chiesa più grande che, probabilmente su disegno di Giuliano da Sangallo, venne iniziata nel 1470 a cura del Comune.
Grazie anche ai Padri Domenicani che la considerarono la loro protettrice, il culto verso la Vergine della Quercia si accrebbe sempre più e si espanse in tutta Italia ed anche in Europa: basti ricordare che padre Enrico Lacordaire, prima avvocato a Parigi durante la Rivoluzione Francese e poi frate Domenicano, le volle affidare l’ordine Domenicano Francese rifondato e portò con sé a Nancy, nel primo convento riaperto in Francia nel 1843, una copia realizzata dal suo amico pittore fra G. Bessòn. Nel 1867 papa Pio IX proclamò Basilica la chiesa della Quercia e nel 1873 lo Stato Italiano prese possesso del complesso che subito dopo venne dichiarato monumento nazionale.
Note
[Fonte:http://www.viterboinrete.it/joomla/it/monumenti/chiese/41-basilica-della-madonna-della-quercia]
H. Vicaire, Storia di S. Domenico, Edizioni Paoline, Roma 1983, pp.496ss.]
Domenico aveva il dono delle lacrime. In particolare, egli piangeva mentre celebrava l’Eucaristia. Viveva intensamente l’incontro con Dio e l’intercessione per tutti i fratelli, che custodiva dentro il proprio cuore. Quale il senso delle lacrime? A volte, esse sono un luogo di guarigione. Segno di liberazione. In se stesse, il più delle volte, non sono piacevoli. Eppure Dio è così grande che sa trasformarle in strumento di purificazione e di vita. Sono come un’acqua che lava l’anima e rende più bello il corpo, perché dona anche una maggiore unificazione interiore.
Questa unità Domenico la sentiva fortemente quando stava all’altare e, a braccia distese, portava a Dio le ansie, i percorsi, i sogni delle persone. Donava a Dio le lacrime di tutti, perché Egli le rendesse strumento di liberazione, di trasformazione, di conversione e di una nuova bellezza. Le lacrime, a volte, sgorgano abbondanti. Come quando ci si accorge degli errori della propria vita. Come quando il cammino si fa pesante. O quando non ci si sente accolti. Quando i piedi fanno male, lungo il percorso dell’esistenza. Queste lacrime, però, saranno benedette se, come Domenico, le uniamo al sacrificio di Cristo che sull’altare, ogni giorno, si rinnova. E, rinnovandosi, rende preziose anche le nostre lacrime.
È tempo di ripartire. Tempo di ricominciare. Tempo di darsi tempo. Tempo di incontri. Tempo di alzarsi e camminare. Lungo il cammino, aprendo gli occhi, tendendo le orecchie, sentendo i profumi, calpestando le strade e scrutando l’orizzonte, forse faremo nuovi incontri importanti. Con noi stessi, innanzitutto. E con Dio, nascosto nel profondo del cuore, da sempre. E realmente presente nella Santissima Eucaristia.
Con le parole di questo meraviglioso Inno di San Tommaso d’Aquino, vogliamo invocarlo:
“Adoro Te devotamente, oh Dio nascosto,
Sotto queste apparenze Ti celi veramente:
A te tutto il mio cuore si abbandona,
Perché, contemplandoTi, tutto vien meno.
La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano,
Ma solo con l’udito si crede con sicurezza:
Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio,
Nulla è più vero di questa parola di verità.
Sulla croce era nascosta la sola divinità,
Ma qui è celata anche l’umanità:
Eppure credendo e confessando entrambe,
Chiedo ciò che domandò il ladrone penitente.
Le piaghe, come Tommaso, non vedo,
Tuttavia confesso Te mio Dio.
Fammi credere sempre più in Te,
Che in Te io abbia speranza, che io Ti ami.
Oh memoriale della morte del Signore,
Pane vivo, che dai vita all’uomo,
Concedi al mio spirito di vivere di Te,
E di gustarTi in questo modo sempre dolcemente.
Oh pio Pellicano, Signore Gesù,
Purifica me, immondo, col Tuo sangue,
Del quale una sola goccia può salvare
Il mondo intero da ogni peccato.
Oh Gesù, che velato ora ammiro,
Prego che avvenga ciò che tanto bramo,
Che, contemplandoTi col volto rivelato,
A tal visione io sia beato della Tua gloria”.
(Monache Domenicane – Pratovecchio)
In un giorno imprecisato dell’anno 1263 (o 1264), forse nella tarda estate, giunse a Bolsena un sacerdote teutonico, al quale più tardi la tradizione attribuì un nome, Pietro, e una città d’origine, Praga. Sempre secondo la tradizione, Pietro aveva intrapreso il lungo e disagevole pellegrinaggio per sentirsi fortificato nelle verità di fede che in quel momento mettevano in crisi la sua identità di sacerdote, fra tutte la presenza reale di Cristo nell’eucaristia. Nell’animo di Pietro il ricordo della martire Cristina, la cui fortezza non aveva vacillato di fronte al martirio, aprì uno spiraglio. Dopo aver venerato devotamente la tomba della santa, in quel luogo celebrò l’eucaristia. Di nuovo i suoi dubbi cominciarono a turbargli la mente e il cuore; pregò intensamente la santa perché intercedesse presso Dio di donargli quella forza, quella certezza nella fede che l’avevano distinta nella prova estrema. Al momento della consacrazione, mentre teneva l’ostia sopra il calice, pronunciate le parole rituali, questa apparve visibilmente arrossata di sangue che copiosamente stillava bagnando il corporale. Al sacerdote mancò la forza di continuare il rito; pieno di confusione e di gioia, avvolse le specie eucaristiche nel corporale e si portò in sagrestia. Durante il percorso alcune gocce di sangue caddero anche sui marmi del pavimento e dei gradini dell’altare.
Nell’evento del Miracolo Eucaristico di Bolsena, Tommaso d’Aquino ha avuto un ruolo veramente importante. Sia il Papa Urbano IV che il Dottore Angelico poterono verificare immediatamente di persona il prodigo. Negli inni eucaristici di Tommaso emerge l’unione profonda con Cristo che egli aveva sperimentato tante volte e che affiora in maniera particolare in un episodio che risale al suo soggiorno a Napoli. Un giorno, pregando davanti al Crocifisso, Tommaso chiese al Signore di fargli conoscere il suo “parere” su quanto avesse scritto sulla fede cristiana. E il Crocifisso rispose, in semplicità: “Hai scritto bene di me. O Tommaso, e qual mercede desideri?”. San Tommaso, allora, rispose: “Non altro fuorché Voi stesso, o Signore”
Le reliquie che ancora oggi testimoniano l’evento prodigioso sono:
– l’ostia, il corporale e i purificatoi custoditi nella Cappella del Corporale nella cattedrale di Orvieto; in particolare, l’ostia e il corporale, dal 1337, vennero conservati in quel gioiello di oreficeria senese che è il reliquiario di Ugolino da Vieri;
– l’altare su cui accadde il prodigio, stupendo manufatto dell’VIII secolo, collocato fin dalla prima metà del XVI nel vestibolo della Basilichetta Ipogea di Santa Cristina in Bolsena;
– quattro lastre di marmo macchiate di sangue prodigioso venerate dal 1704 nella Cappella Nuova del Miracolo, costruita come degna dimora delle reliquie rimaste a Bolsena. Una quinta, nel 1574, fu donata alla parrocchiale di Porchiano del Monte.
Note
Riflessione
Sul cammino di Domenico, dopo l’esperienza delle lacrime, incontriamo un’altra acqua nella quale si immerse colei che, più di ogni altra, incarnò e trasmise il carisma del fondatore: Caterina da Siena. L’esperienza che la Santa visse a Bagno Vignoni ci fa riflettere sul senso di quelle acque che sono capaci di lavare in profondità la nostra anima e la nostra vita. Sul vero benessere dell’essere umano, che non può limitarsi alla sfera del corpo ma si estende anche a tutta la sua persona. Niente, infatti, può recare all’uomo salute, vigore, gioia vera e duratura se egli non si riconcilia con Colui che, solo, può restituirgli quella bellezza autentica già ricevuta nel dono del battesimo. Solo la comunione con Dio e il ritornare a vivere la propria vita dentro il suo abbraccio di Padre possono restituirci quella salute dell’anima che si rifletterà anche sul corpo. Immergersi in queste acque, allora, diventa un’esperienza di fiducia, di ritorno. Un’occasione per riscoprire la nostra vocazione di figli. Dopo le lacrime, abbiamo bisogno di un bagno di rigenerazione e di rinascita. Siamo, infatti, creati a immagine e somiglianza di quel Dio che è relazione: Padre, Figlio e Spirito Santo. Immergiamoci, dunque, nel suo immenso amore.
Con Caterina da Siena, il nostro percorso prende anche un nuovo nome: la “via delle lacrime” diviene, qui, “via della luce” (S. Caterina da Siena, Dialogo, CLIV, 95). I sacramenti, infatti, ci danno uno sguardo nuovo sulla vita, su noi stessi e su Dio. Tutto, improvvisamente, si illumina. E siamo resi capaci di vedere “oltre”. In particolare, riconciliarsi con Dio significa accogliere il suo abbraccio di Padre e Madre. Nel cammino di Domenico, una nuova luce vuole illumininare la nostra vita. Seguiamola.
(Monache Domenicane – Pratovecchio)
Bagno Vignoni
L’Amiata vista dalla piscina di Bagno Vignoni, sullo sfondo della Val d’Orcia, è uno dei panorami più belli della provincia di Siena. L’acqua calda che sgorga qui è un altro dei numerosi doni dell’antica montagna.
Bagno Vignoni è un borgo medievale, anche se l’origine delle terme, come quella di Bagni San Filippo, è con ogni probabilità etrusca; attesta la presenza dei Romani una lapide conservata all’interno dell’attuale stabilimento termale (citata in epigrafe). La piazza principale è costituita da un’immensa vasca di acque calde e vaporose, che in inverno soprattutto creano una suggestione magica, immerse nel paesaggio leonardesco che circonda il paese. L’acqua ha sostituito la pavimentazione tipica della piazza italiana. Intorno alla vasca, un palazzo rinascimentale, attribuito a Bernardo Rossellino, il creatore di Pienza, si slancia dalle acque come una visione, mentre il loggiato medievale e la cappellina che vi è inserita sono dedicati a Santa Caterina da Siena, che frequentò questi luoghi. La Legenda Maior di Raimondo da Capua e la Legenda Minor di Tommaso Caffarini riportano il desiderio di Monna Lapa, madre di Caterina, di distogliere la figlia dal suo desiderio di donarsi tutta a Dio con le acque calde e sensuali del vulcano. Ma, invece di godere del benessere e del relax che oggi cerchiamo a Bagno Vignoni, Caterina sfruttò le acque bollenti come strumento di penitenza. Caterina fu a bagno dal 1362 al 1367 e probabilmente vi tornò nel 1377, anno del suo soggiorno alla Rocca a Tentennano. Il “Vascone” a lei intitolato non è più utilizzabile e l’acqua viene fatta defluire verso la piscina e sulle pendici scoscese intorno al paese, dove origina piccole cascate che danno una tipica colorazione biancastra alla collina.
Il luogo fu scelto per le scene più suggestive del film Nostàlghia da Andreij Tarkovskij, che ne fece uno scrigno di metafisica desolazione per i suoi personaggi sperduti. In effetti, Bagno Vignoni è l’ideale per le passeggiate in solitudine nelle piccole vie medievali, oggi rallegrate da ottimi ristoranti ed enoteche.
Bagno Vignoni ha un’atmosfera unica al mondo. Incastonato come un gioiello nel cuore della Val d’Orcia, offre una vista mozzafiato sulla più tipica campagna toscana, che si vede da qui come da una terrazza naturale.
Note
[Fonte: https://terre-di-toscana.com/terreditoscana/bagno-vignoni-da-santa-caterina-ad-andreij-tarkovskij/]
Domenico non passò a Montepulciano. Ma qui visse S. Agnese. Che ci aiuta a comprendere un aspetto fondamentale di Domenico: egli era un uomo profondamente contemplativo. Nessuno, più di lui, era socievole e gioioso. Eppure, amava distanziarsi dai propri compagni di viaggio quando percorreva le strade che univano una città ad un’altra. Ai suoi confratelli diceva: “Pensiamo al nostro Salvatore”. È la preghiera del cuore. È provare a camminare con quel Nome sulle labbra perché esso, scendendo nel cuore, lo riempia di pace.
Agnese rappresenta l’anima contemplativa di Domenico. Lei che, nel monastero, donò la sua vita perché ogni uomo potesse accogliere la Parola di Cristo, divenne grembo di questa Parola. La monaca domenicana è chiamata a partorire nel mondo l’Amore, soprattutto attraverso la preghiera di intercessione e la comunione di vita. È chiamata a brillare di gioia per Dio. A risplendere della Sua luce, riflessa sul volto di chi lo cerca: “Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).
Prima che monaca, Agnese è stata una donna. Donna autentica, con quel naturale istinto materno che si traduceva nell’attenzione al prossimo, nella cura degli altri, per le consorelle. Vera figlia di San Domenico, era abitata dalla misericordia e dalla compassione. Una delle sue tante speciali caratteristiche era questa: intercedere per le madri. Oggi continua a farlo, specialmente per quelle che vogliono abortire, per quelle che desiderano una gravidanza che non arriva, per quelle che hanno gravidanze difficili. Agnese continua a prendersi cura di tante donne, come se seguitasse ad esercitare la sua maternità. A lei, a quest’amica, possiamo affidare le nostre preoccupazioni, le nostre ansie, e coloro che amiamo. A volte, il miracolo che desideriamo non accadrà. Ma, forse, la realtà è che non avverrà come noi vorremmo, ma comunque si verificherà. Perché pregare, senza alcun dubbio, cambia innanzitutto il nostro cuore.
(Monache Domenicane – Pratovecchio)
Il Santuario della Santa
Il Santuario della Santa poliziana si trova in uno spiazzo prospiciente i bastioni cinquecenteschi della Porta al Prato, che si apre nella parte bassa del centro storico. Sorge su di un poggio fuori le mura cittadine e fu fondato da Santa Agnese Segni (1268-1317), monaca domenicana, nel 1306. Il colle scelto dalla Santa per edificare la sua chiesa, dopo una visione di una scala che partendo da questa sommità univa cielo e terra, era adibito a case di piacere e S. Agnese lo riscattò per 1200 lire. Il colle quindi da luogo di peccato divenne luogo di preghiera. La chiesa, il chiostro monumentale ed il suo convento, oggi completamente trasformati, ospitano il corpo incorrotto di Sant’Agnese e molte sue reliquie. La Santa di Montepulciano fu una mistica e Dio l’arricchì di numerosi favori celesti: visioni paradisiache, estasi e prodigi furono molte delle grazie spirituali che le furono concesse.
La primitiva chiesa fu ampliata nel 1311 e prese il nome di S. Maria Novella, ma subito dopo la morte della santa i devoti iniziarono a chiamarla chiesa di S. Agnese. Sul finire del XVII secolo, il tempio fu sottoposto a radicali ristrutturazioni perché, come si legge nell’agiografia sulla vita della santa, era stata costruita con terra e semplici canne. La facciata della chiesa, rivestita nel Novecento da bande orizzontali in travertino bianco ed ocra, presenta ancora il portale trecentesco. L’interno è a navata unica voltata a botte e conserva in marmi pregiati l’urna contenente il corpo della Santa. Il cenotafio è ornato di statue in stucco rappresentanti sant’Agnese attorniata da angeli. Il santuario è ricco di tele ed affreschi della scuola di Simone Martini, di Raffaello Vanni, di Ulisse Giocchi, di Giovanni da San Giovanni, di Salvi Castellucci e di Nicola Nasini. La vetrata del rosone centrale rappresentante la Santa titolare è attribuita a Bano di Michelangelo da Cortona. Il crocifisso ligneo del XII sec., davanti al quale S. Agnese in preghiera era solita innalzarsi da terra, è opera della scuola tedesca renana. Attiguo al santuario è il convento; il chiostro monumentale venne costruito ed affrescato con scene della vita di Sant’Agnese tra il 1603 e il 1756.
La festa liturgica di Sant’Agnese cade il 20 di aprile, ma la festa popolare della santa è il 1° maggio.
Note
[Fonte: Lucia Tremiti in http://www.montepulcianoblog.com/montepulciano-il-santuario-di-santagnese/]
Domenico cammina, stremato dalla fatica. E arriva a Siena. Qui non deve chiedere ospitalità agli estranei perché ci sono i suoi stessi figli ad accoglierlo. Essi desiderano stabilirsi nell’ospizio di Santa Maria Maddalena ed è lì che egli viene ospitato. Un giorno, questa città avrebbe dato i natali a colei che, più di ogni altra, avrebbe incarnato e trasmesso il carisma del fondatore: Caterina da Siena (1347-1380). Questa donna, che fu madre di innumerevoli figli spirituali di ogni stato di vita, spiritualità e stato sociale; questa giovane “illetterata” che scrisse a Papi, cardinali, vescovi, re e regine, artisti e medici, laici, sacerdoti e religiosi; questa figlia di Domenico che si dedicò con amore all’accompagnamento dei condannati a morte, per molti dei quali ottenne la conversione; proprio lei, Caterina, ci trasmette un amore appassionato all’umanità fragile, malata, ferita. Caterina è vicina a chi ha sbagliato, amando e accompagnando ognuno verso la guarigione del cuore. Nella strada della vita, ognuno di noi cerca la via giusta. Per Caterina, questo cammino è un “Ponte” che unisce ogni estremo: buoni e cattivi, credenti e non credenti, giovani e anziani, uomini e donne. Questo cammino, questa via, questo “Ponte” è Gesù. Colui che ha detto “Io sono la via, la verità e la vita” (Giovanni 14,6), ci ha mostrato la via dell’amore. Di cui tutti gli esseri umani sono assetati. Ma come è possibile amare e fidarsi dell’amore? Tutto, nel mondo, sembra parlare di divisione, infedeltà, conflitti. Dentro di sé, l’uomo porta i segni di ferite e frustrazioni, insieme alla paura di dare fiducia.
Cristo, però, è fedele alla sua Chiesa. La ama similmente a come uno uomo ama una donna. È impossibile separare Cristo dalla Chiesa! Questa sposa ha tanti difetti, ma Cristo vuole lavarla, purificarla e poi vestirla. Vuole renderla bella. Così egli ha fatto con la vita di Caterina. Così avvenne per molti condannati a morte che Caterina si fece amici per portarli a Dio. Così Egli vuole fare con me.
Caterina ha creduto in quella comunione che, al di là delle diverse credenze, dello stato sociale, delle storie, delle provenienze e culture delle persone, quando c’è, genera luce e vita. E diffonde la pace. Si costruì una cella, dentro il proprio cuore. Imparò ad abitarla. Imparò a non avere paura di guardarsi nella verità, con lo stesso sguardo amoroso e misericordioso di Dio. Imparò che, dentro questa cella, poteva incontrare Lui, anche in mezzo alla gente. La cella del cuore è un luogo di preghiera, di raccoglimento, di libertà. Con sorpresa, lì dentro trovava anche tutto il mondo. Dentro la cella, Caterina imparava ad amarsi e ad amare. Perché scopriva di essere lei stessa, per prima, oggetto dell’”amore ineffabile” di quel Dio che è “Fuoco d’amore”. Quanto è importante costruire questa cella nel mio cuore! Questo spazio di libertà e di vita. Spazio di contemplazione, dove la creatività di Dio può finalmente esprimersi su di me. Spazio dove posso ritrovare me stesso, gli altri e Lui, nella verità. Spazio per la conoscenza di me e di Dio in me. Veramente, ogni grande opera nasce dal silenzio dalla contemplazione!
(Monache Domenicane – Pratovecchio)
Basilica di San Domenico
Nella Basilica di San Domenico, in una cappella nella parte opposta rispetto all’altare, è conservato un affresco della Santa con un credente, dipinto verso il 1375 dal pittore senese Andrea Vanni. A quel tempo Caterina era ancora viva, quindi è considerato l’unico “ritratto” con probabile somiglianza. Nella parte destra della navata c’è un’altra cappella dedicata al culto di Santa Caterina, dov’è conservata, in un contenitore di vetro, la reliquia più importante: la sacra testa. I senesi, infatti, erano così affezionati alla loro Santa che desideravano avere una parte del suo corpo nella terra natale. Il resto del corpo è stato sepolto a Roma, luogo della sua morte.
Nella Basilica si trovano anche tante opere d’arte di importanti pittori senesi, come la bellissima Adorazione dei Pastori di un maestro del rinascimento quale fu Francesco di Giorgio.
Casa-Santuario di S. Caterina
All’interno, si può ammirare il bel pavimento di ceramica, nell’Oratorio della Cucina, e molti affreschi con scene dalla vita della Santa. Al piano di sotto c’è una piccola stanza, la “cella” dove Caterina visse per tre anni in solitudine e preghiera e dove ricevette la maggior parte dei doni mistici. Vi si trovano un cuscino di pietra sul quale era solita riposare e alcuni oggetti appartenuti alla santa. Dentro la piccola Chiesa del Crocifisso è conservato un crocifisso pisano del XII° secolo: la Santa era raccolta in preghiera davanti a questo crocifisso quando ricevette le stimmate, il 1° aprile del 1375.
Fontebranda
Dalla casa si può facilmente scendere alla vicina Fontebranda. Caterina è nata vicino a questa importante fonte e suo padre, che faceva il tintore, ne attingeva l’acqua per la sua attività. Da qui si può salire a piedi lungo la panoramica Via del Costone: qui, la giovanissima Caterina vide apparirle, sopra la Basilica di San Domenico, il Cristo Pontefice benedicente.
Note
[Fonte: https://www.discovertuscany.com/it/siena/cosa-vedere/sulle-tracce-di-santa-caterina-da-siena.html
H. Vicaire, Storia di S. Domenico, Edizioni Paoline, Roma 1983, p.619]
A Firenze, Domenico viene ospitato dai suoi fratelli, nell’ospizio di San Pancrazio, destinato ai poveri. In questo luogo, cerca di capire quali sfide e possibilità ci siano per la predicazione. E un incontro molto speciale avviene in questa città. Domenico, infatti, aiuta una giovane donna prostituta a ritrovare la via della vita, del vero amore e della grazia, che è bellezza autentica e limpida per l’anima e il corpo. Dopo la sua conversione, Benedetta sceglie di seguire Domenico anche nella sua missione e si fa monaca. Ogni volta che passerà a Firenze, Domenico troverà il tempo per incontrare questa sua figlia spirituale. Che è passata dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce.
Nel convento di San Marco, la luce si sprigiona dai meravigliosi dipinti del Beato Angelico. È come una carezza per l’anima e riesce a pacificare il cuore. Nata da un pennello non solo esperto, ma anche contemplativo, essa sembra abbracciare e illuminare quanti vi si accostano. Nei dipinti del Beato Angelico, troviamo scene immerse nella calma, nella dolcezza: anche le più dure e dolorose sono come rivestite di un’aurea di pace dove tutto è già inabissato nella luce divina. Il frate-artista ha gli occhi rivolti al futuro: vede già qui ed ora realizzato quel Regno che aspettiamo. Non possiamo scindere l’uomo dall’artista, il pittore dal consacrato. L’artista porta in sé tutto l’uomo e tutto il consacrato, e ci fa vedere la realtà come trasfigurata, attraverso i suoi occhi. L’Angelico dipinge ciò che vede: il suo cuore rivolto a Dio gli dona lo stesso sguardo di Dio. Anche noi, iniziamo a guardare in alto. Forse incroceremo uno sguardo che non ci aspettiamo. Volgiamo gli occhi del cuore verso la Luce. Che, ora lo sappiamo, è una Persona.
Altri santi o figure importanti dell’Ordine a Firenze: Remigio de’ Girolami; Jacopo Passavanti; Villana delle Botti (S. Maria Novella); S. Antonino, Girolamo Savonarola, Domenica da Paradiso, SdD Giorgio la Pira (San Marco).
(Monache Domenicane – Pratovecchio)
Museo di San Marco
Il convento di San Marco a Firenze fu fondato in origine dai monaci benedettini silvestrini nel 1299.
Il 21 Gennaio 1436, con bolla papale di Eugenio IV, diviene domenicano, dopo varie peripezie narrate dallo stesso s. Antonino.
Dichiarato museo di importanza nazionale nel 1869, il museo di San Marco di Firenze è un capolavoro architettonico di Michelozzo voluto da Cosimo dei Medici. Gli splendidi ambienti che ospitano il museo convivono con la chiesa e le parti adiacenti al chiostro, adibite ancora a convento.
La visita a San Marco comprende gli splendidi spazi architettonici del convento e delle celle, del chiostro di Sant’Antonino, del Cenacolo del Ghirlandaio, la sala del Refettorio e del Capitolo. In particolare, la Sala dell’Ospizio è dedicata al Beato Angelico di cui conserva la Deposizione, il Trittico di San Pietro martire, la Pala d’Annalena, il Giudizio Universale (1431), la Pala di San Marco, la Madonna col Bambino e il Tabernacolo dei Linaioli.
Gli affreschi del secondo piano, nella parte dell’edificio in cui erano le celle dei frati, sono opere di primo piano del Rinascimento e capolavori assoluti del Beato Angelico. Realizzati fra il 1438 e il 1446 testimoniano la fase più matura dell’arte dell’Angelico e un esempio di assoluta modernità e raffinatezza, unico nella storia dei monasteri fino a quel momento.
Il Museo comprende poi un numero notevole di opere di inestimabile valore storico-artistico, prime fra tutte il Cenacolo del Ghirlandaio, poi la Madonna con la cintola di Ridolfo del Ghirlandaio, la Madonna col Bambino di Paolo Uccello e opere minori come il famoso ritratto di Girolamo Savonarola e le terracotte invetriate dei Della Robbia. Completa la ricca collezione del museo di San Marco la sua favolosa Biblioteca (1437-1444) che ospita manoscritti preziosissimi appartenuti ai Medici e a personalità come Pico della Mirandola e Agnolo Poliziano.
Merita certamente una visita la chiesa di San Marco dove si trovano, fra l’altro, le spoglie di Sant’Antonino e di Giorgio La Pira.
Note
[Fonte: https://www.imuseidifirenze.it/museo-di-san-marco/
H. Vicaire, Storia di S. Domenico, Edizioni Paoline, Roma 1983, pp. 497; 530]
Riflessione
La luce sorge sin dal mattino, anche se è a mezzogiorno che il sole raggiunge lo zenit. E sappiamo bene quali spettacoli ci offra la natura proprio nelle prime ore della giornata. Nella via di Domenico, scopriamo quanta fiducia avesse il santo nei giovani. Talvolta, gli bastava uno sguardo per stabilire un’intesa. Subito, essi desideravano seguirlo, nelle vie incerte, avventurose e appassionanti della predicazione del vangelo. Vivendo la povertà volontaria, con una grande fiducia nella ragione umana e con un cuore che straboccava di compassione, Domenico attirava tutti. La sua vita avventurosa – la stessa vita degli apostoli di Gesù – attirava coloro che erano alla ricerca di un senso profondo dell’esistenza. Spesso, egli mandava i frati a predicare quando ancora erano novizi. Non era questo un passo prematuro? Non erano forse ancora impreparati? Eppure la sua fiducia, unita al loro entusiasmo giovanile, li rendeva capaci di una tale missione.
Ancora oggi, Domenico ha fiducia nei giovani. E crede nella comunione come fonte di luce e di vita che è, in sé, predicazione. A Fiesole ricordiamo una giovane laica domenicana che visse la propria vita di fede e di malattia in profonda comunione con un frate domenicano. Si tratta di Tilde Manzotti (1915-1939) e fr. Antonio Lupi op (1918-1976). La loro amicizia durò pochi anni, poiché Tilde morì presto a causa di una malattia devastante. Ma la vocazione sacerdotale di fr. Antonio e la sua vita donata per la predicazione nacquero proprio nel grembo dell’esperienza spirituale di Tilde, e lì fu custodita per tutta la vita. A lei il giovane frate scrisse: “Il Signore ha voluto che fosse lei la mamma di questo sacerdozio. Saremo sacerdoti insieme, in eterno”.
Tilde è “madre” del sacerdozio di fr. Antonio, anche se non lo vedrà mai sacerdote. Ma il ministero del giovane frate, e le persone che egli avrebbe incontrato nella sua lunga vita, erano state già accolte e custodite dentro il grembo di questa donna. Di più: la comprensione profonda della propria chiamata egli la raggiunse proprio attraverso l’esperienza di Dio che lei portò a compimento in un letto di dolore e amore.
Potremmo dire che si compie, sul piano della grazia, ciò che osserviamo sul piano della natura, dove l’uomo riceve la vita fisica dalla donna. Così, la donna domenicana è il canale attraverso cui la vocazione dell’uomo domenicano cresce e si compie. Ed egli diviene, attraverso la mediazione di lei, strumento di grazia per tutti gli uomini. Al tempo stesso, osserviamo che, sul piano della natura, i figli dell’uomo sono anche figli della donna. Così, uomo e donna consacrati vivono, insieme, quella maternità e paternità spirituale che li rende soggetti complementari della predicazione del vangelo: “Se soffrirò con te e con tutte le anime che il Signore mi darà, con tutte perché, sì, come vuoi tu e come vuole il Signore, le amerò tutte infinitamente”.
Uguali e complementari, l’uomo e la donna domenicani sono insieme nell’esperienza contemplativa come anche nella predicazione della grazia. E non c’è sacerdozio, non c’è predicazione feconda della Parola, se non insieme. Al di là del tempo e dello spazio. Nell’eternità dell’amore di Dio.
Tante vocazioni domenicane, lungo i secoli, sono nate o sono fiorite proprio dentro un rapporto di comunione, sia nella vita consacrata, religiosa e sacerdotale che in quella matrimoniale: Giordano di Sassonia e Diana d’Andalò, Giordano ed Enrico, Caterina da Siena e Raimondo da Capua … Più recentemente, Giorgio La Pira (laico domenicano) e Fioretta Mazzei (laica francescana), e gli sposi Elisabetta e Felice Leseur (uniti nella fede, misteriosamente, solo dopo la morte di lei, quando egli, dopo avere trovato e letto il diario della moglie, si convertì alla fede cattolica e divenne frate domenicano e sacerdote).
L’amicizia ci fa rassomigliare di più a quel Dio che è relazione. Se vissuta in Dio, essa diviene comunione, e oltrepassa i confini dello spazio e del tempo. Non parliamo, qui, di qualsiasi condivisione di interessi fra uomini e donne. Parliamo di qualcosa di più profondo. Parliamo di una comunione di anime che nasce, cresce e si compie in un totale distacco eppure in un’unione profondissima, che Dio dona se e quando vuole, a chi vuole, e che è solo frutto di una vita nella Sua grazia. Questa è la via di Domenico. La via della luce.
A Fiesole ricordiamo anche S. Antonino e il Beato Angelico.
(Monache Domenicane – Pratovecchio)
Convento di San Domenico
Il Convento di S. Domenico, costruito a metà strada tra Firenze e Fiesole, nacque nel 1405-1406 come cenobio di riforma per iniziativa di Giovanni Dominici e del vescovo fiesolano Jacopo Altoviti, entrambi frati di S. Maria Novella. Nel “conventino”, che fu abitato fin dagli ultimi mesi del 1406, vennero formati alla vita religiosa domenicana sia, il futuro arcivescovo di Firenze, S. Antonino Pierozzi, sia il grande pittore Fra Giovanni da Fiesole, detto Beato Angelico. La parte quattrocentesca del convento venne ultimata intorno al 1418 con il generoso lascito di Barnaba degli Agli e nel 1420 il Beato Angelico prese a dipingere sull’archetto d’entrata della piccola chiesa la Madonna benedicente, di cui gli ultimi restauri del 1960 ci hanno restituito la sinopia. Nell’aula capitolare affrescò pure il grande Crocifisso, testimonianza d’arte e di pietà nel suo amato convento. A causa della soppressione degli ordini religiosi, voluta da Napoleone, il convento fu espropriato. Poterono riacquistare il convento nel 1879, cedendo alcune opere dell’Angelico. Nel 1491 iniziarono i lavori di ampliamento sul lato del chiostro parallelo alla chiesa verso Firenze. Oltre al Dominici, a S. Antonino e al Beato Angelico vengono ricordati con onore diversi frati celebri del convento di Fiesole.
Il porticato esterno e l’elegante campanile della chiesa sono opera di Matteo Nigetti (1569-1649). L’interno della chiesa, trasformata all’inizio del Seicento, venne decorato dai pittori M. Bonechi, R. Botti, e L. Del Moro.
Nella volta della navata: San Domenico portato dagli angeli in cielo; sopra il presbiterio: la Vergine in atto di consegnare il Rosario a S. Domenico e tramite suo alle genti dei quattro continenti.
Il Presbiterio, opera dell’architetto M. Nigetti, ospita un ampio coro seicentesco con 62 stalli parzialmente di noce. Nelle cappelle laterali sono conservate alcune importanti opere d’arte.
Note
[Fonte: https://www.dominicanes.it/provincia/conventi/fiesole-san-domenico.html;
A. Lupi e T. Manzotti, Amare infinitamente – Epistolario, Feeria, 2014]
Domenico, il grande camminatore, fece ben cinque viaggi a Bologna. Qui egli fondò i primi conventi; qui avvennero i primi due importanti capitoli generali. Qui morì, lasciando il suo testamento: “Abbiate la carità, conservate l’umiltà, abbracciate la povertà volontaria”. Qui pronunciò le sue ultime parole: “Vi sarò di aiuto più dal cielo che sulla terra” e “non piangete” manifestando, fino alla fine, quell’aspetto che più di ogni altro lo contraddistingueva: la compassione. Di lui, infatti, ebbe a dire il Lacordaire: “Egli fu tenero come una mamma, forte come un diamante”. A Bologna Domenico chiese di essere sepolto sotto i piedi dei suoi frati. E davvero essi camminarono, lungo i secoli, appoggiando i propri passi sui passi del Fondatore. Sulla roccia sicura di quella prima intuizione. Sull’eredità di un Ordine nato per proseguire nel mondo l’opera degli apostoli: la predicazione del vangelo.
Domenico, uomo di silenzio e di dialogo. Uomo dell’ascolto. Una profonda sete lo abitava: sete della gioia delle persone; sete di verità; sete di donare l’acqua della sapienza a uomini e donne anch’essi, come lui, assetati.
Seguendo i suoi passi, sentiamo che questa sete continua ad abitare, anche oggi, il cuore di chi percorre le vie incerte, tortuose e sofferte di questo nostro tempo. Sete di trovare un senso alla vita, agli avvenimenti, alla storia. Sete di giustizia, di libertà, di verità. Il cuore dell’uomo e della donna di oggi, il cuore dei giovani, è abitato da una sete profonda. Arrivare a Bologna significa aprirsi all’incontro con un amico inaspettato nel proprio percorso di ricerca. Con un uomo che ha cercato e, poi, ha donato copiosamente un’acqua fresca e dissentante: l’acqua della sapienza.
A Bologna, però, finalmente, dopo tanto camminare, siamo invitati a sederci. Domenico ci invita a mangiare con lui. Seduti attorno alla Tavola della Mascarella, è più facile ascoltare l’esperienza di fra Domenico e dei suoi primi fratelli. Tra loro, c’è anche una donna, a simboleggiare l’importante posto occupato dalle donne, sin dagli inizi, nel sogno di Domenico. In questa città, essi vissero l’esperienza entusiasmante della fondazione dell’Ordine. Sopra la Tavola stanno pochi oggetti: ciò che importa sono le persone, che guardano tutte davanti a sé. Insieme, nella stessa direzione. Volgono lo sguardo del cuore alla gente, al mondo cui sono mandati. E a Dio, che si manifesta proprio “attorno alla mensa”: la mensa dell’altare, la mensa della Parola, la mensa della comunione di vita. La mensa del desiderio e della ricerca del Suo Volto. Il nostro cuore, come dice Caterina da Siena, è fatto per amare e il desiderio è ciò che veramente ci rende simili a Dio, perché è infinito! Allora, la sete di vita, di senso, di amore, di libertà che abita l’essere umano, ancora ci parla di quel seme divino che è nascosto nel cuore di ognuno e che attende di essere innaffiato per germogliare e crescere. La terra in cui potrà fiorire e portare molto frutto è l’amore; l’acqua con la quale potrà essere innaffiato è la sapienza. Tutto questo, attraverso la predicazione della grazia.
Domenico e i suoi primi compagni stanno insieme. La comunione di vita è il luogo in cui è possibile fare esperienza di Colui che disse: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18,20). È proprio qui che Dio risponde alla “sete” del cuore e si manifesta. Si lascia conoscere.
Tanti santi dell’Ordine – e alcuni ne abbiamo incontrato anche in questa Via di Domenico – hanno vissuto esperienze di comunione che, nel corso dei secoli, hanno alimentato, in maniera silenziosa e feconda, la vita della Chiesa. È, dunque, possibile abbattere le barriere dell’odio attraverso la sfida della comunione. Sconfiggere le guerre e le divisioni con una vera e propria forma di “obiezione di coscienza”: la vita insieme, nella condivisione profonda dei doni personali e dei beni della grazia tra persone di culture, età, provenienze diverse.
Da qui si può ripartire. Insieme a Domenico, uomo di luce e di tenerezza. Per irradiare nel mondo Cristo, vera Luce, “Sole senza tramonto”. Ecco la vera sfida per i veri, coraggiosi, intrepidi camminatori nei sentieri del nostro tempo! (Monache Domenicane Pratovecchio)
Altri santi o figure importanti dell’Ordine a Bologna:
Beato Reginaldo di Orlèans (1180-1220); Beato Giordano di Sassonia (1176-1237); Beata Diana d’Andalò (1201 – 10 giugno 1236); Beata Cecilia Cesarini (Roma, 1200 circa – Bologna, 1290)
E poi ancora:
San Pietro da Verona, martire (1200 circa-1252 –
Studente univeristario a Bologna, qui entrò nell’Ordine); Beato Isnardo da Chiampo (1280 circa-1244); Beata Imelda Lambertini, monaca (1320-1333); Beato Antonio della Chiesa (1394-1459); Beato Costanzo da Fabriano (1400 circa-1481); San Pio V, papa (1504-1572); Beato Benedetto XI, papa (1240-1304)
Niccolò Boccasini, trevigiano, di umili origini, fu due volte provinciale di Lombardia, con sede a Bologna.
Beato Giovanni da Salerno (1190-1242)
Studente di diritto all’Università di Bologna, ivi entrò nell’Ordine nel 1219. Inviato da san Domenico con altri compagni a Firenze per fondarvi un convento, nel 1221 dà vita alla comunità domenicana di Santa Maria Novella.
San Giacinto (1183-1257)
Di antica famiglia nobile polacca, giunse a Bologna per compiervi gli studi. Quivi conobbe san Domenico: ne abbracciò con entusiasmo l’ideale ed entrò nell’Ordine, per poi ripartire per la patria nativa e portarvi l’Ordine.
Beato Guala da Bergamo (1180-1244)
Entrò nell’Ordine a Bologna nel 1219. Priore del Convento di Brescia, ebbe in sogno la visione della gloria di san Domenico, accolto alla sua morte direttamente in Cielo dal Signore Gesù e dalla Beata Vergine Maria.
Beato Raimondo da Capua (1330-1399)
Studente di diritto all’Università di Bologna, ivi entrò nell’Ordine. Fu docente di teologia a Bologna. Fu direttore spirituale di santa Caterina da Siena. Lo stesso san Domenico in una visione lo chiamò a promuovere e a guidare la riforma dell’Ordine.
Beato Giacomo da Ulm (1407-1491)
Giunto in Italia dalla Germania per un pellegrinaggio a Roma, divenne militare, dapprima nelle fila dell’esercito napoletano quindi del duca di Milano. Giunto a San Domenico di Bologna si sentì attratto dalla vita domenicana, che abbracciò come fratello cooperatore, spendendosi nella preghiera, nella mortificazione, nell’umiltà, nell’instancabile e cordiale servizio al prossimo, nonché nell’arte vetraria di cui era maestro. Le sue reliquie sono conservate nella nostra Basilica.
Beato Pietro Geremia (1399-1452)
Studente di diritto a Bologna, ivi entrò nell’Ordine.
Beata Benvenuta Boiani (1255-1291).
Terziaria domenicana, affetta da grave malattia, fu guarita per intercessione di san Domenico, presso la cui tomba si era recata in pellegrinaggio.
Beato Giovanni da Vercelli (1200 circa-1283)
Priore a Bologna, provinciale di Lombardia, VI Maestro dell’Ordine (1264).
Beato Sebastiano Maggi (1414-1496)
Priore a Bologna. [1]
La chiesa della Mascarella fu il primo luogo in cui si stabilirono i padri domenicani (1218) e in cui prese dimora lo stesso Domenico di Guzmàn. La tavola su cui fu realizzato il dipinto, databile entro il quarto decennio del secolo XIII, è la stessa attorno alla quale i domenicani della Mascarella si sedevano abitualmente a mensa. Il miracolo della moltiplicazione dei pani è documentato dagli “Atti” che precedettero la canonizzazione di San Domenico, avvenuta nel 1234. L’aureola che circonda il volto del Santo induce ad associare la datazione della pittura all’epoca dei festeggiamenti per questa occasione. La predicazione di Domenico, di Reginaldo d’Orleans e degli altri domenicani della Mascarella indusse molti bolognesi ad entrare nell’Ordine. La comunità domenicana, alla ricerca di spazi più ampi, si trasferì in San Nicolò delle Vigne nel 1219, grazie all’appoggio di una giovane bolognese, Diana degli Andalò, nel luogo in cui sorge ancora oggi i Convento di San Domenico. Sulle pareti laterali della Cappella sono esposti i dipinti trecenteschi che si trovavano sul retro della tavola e che furono trasportati su tela intorno agli anni ‘30 del secolo XX.
Diana era una grande ammiratrice del beato Reginaldo d’Orléans. Nel marzo del 1219 risulta che si adoperò per facilitarlo ad acquistare un appezzamento di terreno in località delle Vigne dove sorgeva il convento di San Nicolò. Attualmente sul luogo sorge la Basilica di San Domenico. La giovane nell’estate dello stesso anno si avvicinò ai domenicani, accolta da Domenico di Guzmán nonostante la famiglia fosse contraria. Sulle mani di Domenico fece professione come monaca domenicana. Nell’autunno del 1222, Diana con il contributo della famiglia e del Beato Giordano di Sassonia (primo successore e primo biografo di San Domenico) fondarono il monastero di Sant’Agnese di Bologna. Diana trascorse tutta la sua vita in quel monastero, in cui fu anche Priora della comunità. Anche altre suore all’interno del monastero diventarono beate, come Amata e Cecilia di Bologna.
Note
[Fonte: http://www.parrocchiamascarella.it/tsdom.htm; https://www.vaticano.com/santa-diana-degli-andalo/
H. Vicaire, Storia di S. Domenico, Edizioni Paoline, Roma 1983, pp.437;451-452; 481; 526; 619]
[1] [Fonte: fra Roberto Viglino in https://sandomenicobologna.it/ordine-dei-predicatori/i-nostri-santi/]