Quando si sente parlare dei “Domenicani”, il pensiero corre subito all’Inquisizione e alla legenda nera costruita nel Settecento, quando l’Illuminismo proiettò un’immagine del medioevo come un’epoca oscura di superstizione e fanatismo religioso. I meno prevenuti e, anche più colti, associano immediatamente i Domenicani a san Tommaso d’Aquino, alla preghiera del Rosario, alla pittura del Beato Angelico. Ma è raro che si pensi subito al loro Fondatore, da cui pure trassero il nome con cui venivano comunemente designati. Ancora oggi Domenico di Caleruega (una volta detto di Guzmán, dal nome della famiglia nobile di cui era il più famoso rampollo secondo una tradizione storiografica interna all’Ordine) è, tutto sommato, un personaggio poco noto, sicuramente non un santo popolare, a differenza di numerosi altri, assai più famosi di lui: Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena, Vincenzo Ferrer, Martino di Porres. Questo forse dipende dal fatto che la sua vita, in apparenza, non presenta fatti straordinari, svolte inattese, miracoli strepitosi. La stessa fondazione dell’Ordine fu l’esito di una presa di coscienza graduale: Domenico comprese la necessità di un annuncio rinnovato del Vangelo, ed egli assecondò l’ispirazione dello Spirito, che lo guidò nell’attuazione del suo progetto.
Ora, in occasione del Centenario della sua morte, oppure, con un’espressione più liturgica e teologale, del suo dies natalis, il giorno cioè in cui è “nato” alla vita eterna, desideriamo non solo ricordarlo, ma anche impegnarci per far conoscere sempre di più la sua santità e mettere in risalto il ruolo che egli ha avuto nella storia della Chiesa.
La data esatta della nascita di san Domenico è incerta: secondo le ricerche storiche più recenti egli sarebbe nato intorno al 1174 a Caleruega, piccolo borgo della Vecchia Castiglia in Spagna. Stando alle fonti antiche della sua vita, i genitori si chiamavano Felice e Giovanna; ebbe inoltre un fratello prete e un altro, Mamès, che lo seguì nell’Ordine. La madre, donna di grande preghiera, era famosa per la compassione e lo zelo di carità che aveva verso i poveri della regione, tanto che si tramandano alcuni miracoli da lei operati a favore dei diseredati. Prima che Domenico nascesse, vide in sogno un cagnolino con una fiaccola ardente, «come se avesse in fronte una luna». Si lesse questo sogno come un celeste presagio che il bambino sarebbe stato «dato in luce alle genti» (Giordano di Sassonia, Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum, I – d’ora in avanti abbreviato in Libellus con il numero del paragrafo). La madrina, invece, vide sulla sua fronte una stella: «Dio, che conosce in anticipo le cose future, volendo mostrare che qualche cosa di grande sarebbe derivato dal bambino, mostrò in sonno a una matrona, che aveva sollevato Domenico dal fonte battesimale, la seguente visione. Alla sua madre spirituale, infatti, sembrò che il bambino Domenico avesse una stella sulla fronte che con la sua luce illuminava tutta la terra. Con ciò si dava ad intendere che egli sarebbe stato destinato un giorno alla luce dei popoli, per illuminare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte. Quasi stella mattutina, infatti, rifulse nel mondo e sembrò insieme a lui nascere al secolo una nuova luce, il cui splendore si è ormai diffuso in tutto il mondo. Fu questa nobile matrona che, stupita dalla grandezza della visione, con grande gioia annunciò alla madre di Domenico ciò che aveva visto» (Umberto di Romans, Legenda Maior, 3 – d’ora in avanti abbreviato in LM con il numero del paragrafo). Nel Medioevo si attribuiva particolare valore profetico a questi segni che accompagnavano la nascita di alcuni personaggi: erano interpretati come un annuncio soprannaturale di futura santità. In seguito queste immagini sognate avrebbero stabilmente accompagnato anche la persona iconografica di Domenico, sovente raffigurato con una stella, metafora luminosa della sua celeste sapienza.
Il fanciullo, da parte sua, sembrò confermare sin dalla più tenera età queste aspettative che si riponevano in lui. Riferiscono infatti le fonti agiografiche, riprendendo un topos ricorrente sin dall’antichità nelle Vite dei santi e delle sante, quello del puer senex, che il piccolo Domenico era «di indole molto buona», giovane di età, ma anziano «per la maturità della vita e la saldezza dei costumi» e che da subito cominciò a «camminare per una via immacolata» e «conservò illibato sino alla fine lo splendore della sua verginità» (Libellus 8). I genitori lo fecero istruire nelle discipline ecclesiastiche da uno zio arciprete «perché già bambino si imbevesse del profumo di santità» (Libellus 5). Successivamente fu inviato all’università di Palencia, dove, ultimato l’iter delle scienze profane, intraprese lo studio della teologia. Di questo periodo si racconta che, in occasione di una carestia che colpì la città di Palencia, Domenico vendette i suoi preziosi libri in pergamena per sfamare la popolazione:
All’epoca in cui continuava i suoi studi a Palencia, una grave carestia si produsse in quasi tutta la Spagna. Egli, allora, turbato dal bisogno dei poveri e bruciando in se stesso per il sentimento della compassione, decise di seguire i consigli del Signore e, al contempo, di porre rimedio, per quanto era nelle sue possibilità, alla miseria dei bisognosi che morivano. Così, messi in vendita, con ogni suo oggetto, i libri che possedeva e che gli erano assolutamente necessari, fondò un’elemosina, distribuì e diede ai poveri (Libellus, 4).
L’episodio, ricordato anche dai testimoni al processo di canonizzazione, è molto significativo: lo studio è sempre stato un valore importante per i Domenicani, e la vocazione intellettuale un elemento peculiare della loro identità, quasi un carisma dell’Ordine. Ma con questo racconto si metteva ben in chiaro che neppure i libri e la cultura potevano essere anteposti alla compassione e all’amore del prossimo.
Questo gesto di carità, inusitato quanto esemplare, richiamò su Domenico l’attenzione del vescovo Martino di Osma (o del suo priore Diego), che nel 1197 o 1198 lo persuase a diventare canonico regolare della Cattedrale: nel 1201, era già sottopriore della comunità canonicale. A Osma Domenico trascorse un periodo di preghiera liturgica e personale, studio e vita comune: «consumava la chiesa notte e giorno, attendendo senza interruzione alla preghiera; aveva l’abitudine, che avrebbe conservato per tutta la vita, di «passare la notte in orazione e, a porte chiuse, di pregare il Padre (Mt 6,6)». Aveva il dono delle lacrime: piangeva «per i peccatori, per gli infelici, per gli afflitti» (Libellus 12-13), e pregando chiedeva a Dio la carità per dedicarsi alla salvezza degli uomini, ad imitazione del Signore Gesù che per questo aveva offerto tutto sé stesso. In Domenico già si formava l’apostolo.
Nella vita del giovane canonico la morte del vescovo Martino rappresentò una svolta importante: a costui, infatti, successe sulla cattedra episcopale Diego, priore del capitolo dei canonici e grande estimatore di Domenico. Il nuovo vescovo era molto apprezzato dal re di Castiglia, tanto che, quando era ancora fresco di nomina, nel 1203/4, per incarico del sovrano, intraprese un viaggio diplomatico in Danimarca per combinare i1 matrimonio del figlio del re con una ragazza nobile di quelle terre. In quella occasione Diego di Osma decise di condurre con sé Domenico. Nell’attraversare il Sud della Francia, i due spagnoli vennero a contatto con l’eresia degli albigesi (da Albi, famosa città dell’Occitania, in cui i catari erano molto numerosi). Una notte, giunti nei pressi di Tolosa, il corteo episcopale si fermò per pernottare in una locanda gestita da un oste eretico. Domenico, invece di riposarsi dall’estenuante viaggio, si mise a discutere con lui e, dopo un lungo confronto, «riuscì con l’aiuto dello Spirito di Dio» a convertirlo: fu la prima fatica apostolica del santo, mosso da «molta compassione del cuore per tante anime così miseramente illuse» (Libellus, 15).
Rientrati in Spagna, i due canonici di Osma ripartirono nuovamente alla volta della Danimarca con il mandato regio di concludere il matrimonio e accompagnare la fidanzata dal suo sposo. Ma pare che nel frattempo la fanciulla fosse morta, e quindi le nozze non ebbero luogo. Durante il viaggio di ritorno, nell’estate del 1205, Diego e Domenico fecero una deviazione verso Roma per incontrare papa Innocenzo III e chiedergli il permesso di recarsi dai Cumani, una popolazione ancora pagana, per convertirli; il pontefice, tuttavia, non dette il proprio consenso, e volle che i due spagnoli rientrassero nella loro diocesi. Umberto di Romans dà una lettura profetica del diniego del papa:
Il Sommo Capo non acconsentì alla sua richiesta, né volle almeno concedergli il permesso di andare presso i Cumani. Così, al suo ritorno, visitò Citeaux e si affrettò a ritornare in Spagna. Ma la Provvidenza celeste, che già lo aveva più volte trattenuto da ciò che aveva concepito nella sua mente, in vista di qualcosa di più importante, ora gli preparava anche un altro ostacolo su questo cammino (LM, 7).
A Montpellier, la comitiva si incontrò con una legazione papale che predicava la conversione degli eretici e Diego, nel vedere il ricco apparato di quei prelati, esclamò:
Non così, o fratelli, non così ritengo che voi dobbiate procedere. Mi sembra impossibile che si possano ricondurre alla fede, con le sole parole, questi uomini, che si appoggiano piuttosto sugli esempi. Ecco gli eretici: persuadono i semplici delle loro vie, col mostrare una apparente devozione, simulando esempi di povertà ed austerità evangeliche. Perciò, se voi verrete a mostrare cose contrarie a queste, edificherete poco, distruggerete molto, in nessun modo vi obbediranno. Smussate un chiodo con un altro chiodo, mettete in fuga la finta santità con la vera religione, perché la superbia dei falsi apostoli chiede di essere sconfitta con una umiltà manifesta […] Essi gli rispondono: “Quale consiglio allora ci dai, o buon padre?”. Ed egli a loro: “Fate quello che mi vedrete fare”. Subito, dunque, lo Spirito del Signore si precipitò su di lui: egli chiamò i suoi e li rispedì a Osma con i cavalli, i bagagli e il vario apparato che aveva portato con sé, trattenendo in sua compagnia solo pochi chierici. Poi disse che suo proposito era di restare in quella regione per diffondervi la fede (Libellus 9).
Quel viaggio fu decisivo per i canonici di Osma, che modificarono gli obbiettivi della loro missione: si resero conto, infatti, che vi era un problema grave di evangelizzazione all’interno della stessa cristianità, ed esso andava affrontato con urgenza, perché nelle regioni della Francia meridionale il contagio ereticale si era ormai diffuso in maniera paurosa.
Il catarismo era una eresia di impianto dualista, che intendeva offrire una risposta al grande problema del male. La dottrina catara spiegava le origini del mondo come una lacerazione dell’unità divina: il Creato era opera di un Dio minore o, per le correnti più radicali, addirittura di Satana. Di qui l’idea che Cristo non si fosse realmente incarnato, ma fosse un angelo inviato dal Padre ad annunciare la verità agli uomini, a liberare il loro spirito, scintilla luminosa del divino, dalla prigionia ed opacità della carne. Alla base del catarismo vi erano miti antichi e assai complessi che risalivano alle origini del cristianesimo, a correnti gnostiche devianti. Probabilmente questo nucleo dottrinale era poco accessibile alla maggioranza dei seguaci, che però comprendevano bene le implicazioni pratiche ed etiche di questo radicale rifiuto della materia, e si imponevano una disciplina severa, astenendosi dal consumo delle carni, e dai rapporti sessuali. L’obbiettivo finale era quello di impedire il proseguimento della specie umana. Presso alcune frange estreme, sembra che i perfetti praticassero addirittura il suicidio rituale, la cosiddetta “endura”. Nonostante il messaggio pessimistico e l’ascetismo estremo, il catarismo, che aveva fatto la sua comparsa in Europa nel secolo precedente, si era paurosamente diffuso in Italia settentrionale e in Linguadoca, al punto da dar vita a una Chiesa con una gerarchia parallela a quella romana. Il movimento cataro sviluppò una intensa opera di proselitismo, sotterranea ma efficace, con una forte presa sul popolo: si sottolineava il contrasto tra l’eroismo di quei “buoni cristiani” e l’opulenza e potenza della Chiesa istituzionale. Il coraggio di uomini e donne pronti a rendere una testimonianza di fede sino al martirio suscitava grande ammirazione in tutte le classi sociali. Inoltre, la risposta della Chiesa al dilagare del fenomeno fu lenta e all’inizio assolutamente inadeguata.
Il vescovo Diego colse perfettamente nel segno nell’individuare le ragioni dell’insuccesso: si trattava di un problema di credibilità e di coerenza. Probabilmente egli sapeva, per esperienza, che non era possibile superare l’ostacolo dell’anticlericalismo popolare se non mettendosi al sicuro da ogni sospetto di mondanità: bisognava presentarsi come veri viri evangelici. Così Diego si mise in cammino per predicare e tenere dispute contro gli eretici. Dopo il ritorno ad Osma (prima del 29 aprile 1206), Domenico rinunciò alla carica di sottopriore e nel mese di luglio ritornò nel sud della Francia. Con i suoi compagni si unì al vescovo Folco di Tolosa (o di Marsiglia) per una campagna di predicazione antiereticale nella regione dell’Aquitania, che doveva seguire la nuova strategia proposta da Diego: una predicazione povera, condotta con le sole armi della parola e della testimonianza.
Prima della fine dell’anno (dunque prima del 25 marzo 1207) il vescovo Folco, dietro sollecitazione di Domenico, donò a Diego una piccola chiesa sita nel villaggio di Prouilhe, affinché alcune donne catare convertite da Domenico e dai suoi compagni e ritornate alla fede cattolica vi potessero vivere «religiosamente». Narra Umberto di Romans:
In quei luoghi erano dei nobili che, costretti dalla povertà, affidavano le loro figlie agli eretici perché fossero nutrite ed educate, o piuttosto, in realtà, perché venissero ingannate con i loro errori letali. Avendo pietà della loro perniciosa vergogna, il servo di Dio, il vescovo Diego, fondò un monastero per accoglierle in un luogo chiamato Prouille, dove le ancelle di Cristo, sottomesse a una clausura perpetua, a straordinarie osservanze e a un rigoroso silenzio, lavorando con le loro mani, compiono nella purezza delle loro coscienze un servizio gradito al loro Creatore. Cresciute immensamente in numero e in merito, diffondendo il proprio odore in lungo e in largo, esse hanno indotto molte devote a Dio a costruire cenobi simili [ai loro], a loro santa imitazione, (LM, 10).
Con il tempo il gruppo si sciolse e Diego dovette tornare a Osma, dove morì il 30 dicembre 1207. Domenico, invece, decise di fermarsi nel Tolosano per restarvi poco meno di dieci anni a predicare.
Dopo aver appreso, dunque, della morte dell’uomo di Dio, quelli che erano rimasti nella regione di Tolosa tornarono ciascuno a casa propria. Solo frate Domenico, però, vi rimase, continuando a predicare. Sebbene alcuni, talvolta, lo seguissero a seconda delle circostanze, tuttavia non erano legati a lui per qualche sorta di obbedienza (Libellus, 12).
Domenico compì questa scelta con grave rischio personale. Non bisogna infatti dimenticare che nel 1209, in seguito all’assassinio del legato papale Pietro di Castelnau, scoppiò la sanguinosa crociata contro gli Albigesi, un conflitto durato vent’anni, nel corso dei quali guerrieri provenienti dal nord della Francia non solo sterminarono gli eretici ma stabilirono il proprio controllo politico sulle popolazioni dell’Occitania. In questi frangenti drammatici Domenico non si mischiò ai predicatori della crociata, si dissociò da ogni tipo di violenza, e continuò la sua predicazione “con la preghiera e con l’esempio”.
La fedeltà e la perseveranza di Domenico, che rimase a predicare “quasi da solo”, furono premiate e attorno a lui crebbe una prima comunità. Nel gennaio del 1215, due cittadini di Tolosa, Pierre e Thomas Seilhan “si donarono” a lui con un voto, donandogli anche la propria casa; altri seguirono. Qualche mese più tardi il vescovo Folco assegnò alla neonata comunità una chiesa con un’abitazione annessa, assicurò loro una piccola rendita e istituì fra Domenico e i suoi compagni “predicatori” nella sua diocesi, nell’osservanza dello stile evangelico: andando a piedi, praticando la povertà del Cristo e predicando a tutti la verità del Vangelo:
[…] Folco, di felice memoria, che amava assai teneramente frate Domenico, caro a Dio e agli uomini, vedendo la religione, la grazia e il fervore di quei frati nella predicazione, esultando per il sorgere di questa nuova luce, assegnò loro, col consenso di tutto il suo capitolo, la sesta parte di tutte le decime della sua diocesi, affinché, con l’aiuto di tale beneficio, essi potessero provvedere a ciò che era loro necessario per i libri e il loro sostentamento, (Libellus, 17).
L’antico sogno accarezzato da Diego di avere un gruppo di predicatori votati, nella povertà totale, alla santa predicazione evangelica, finalmente si era avverata! Ma il campo della semina era ancora troppo angusto, essendo limitato alla sola diocesi di Tolosa. Infatti, Folco, in quanto vescovo locale, secondo i canoni, non aveva né il potere né la possibilità di trasformare la precedente missione pontificia di predicare contro gli eretici in istituzione diocesana senza il consenso provvisorio del legato del papa: per questo era necessario avere la conferma da Roma e in questo modo assicurare la continuità alla praedicatio al di là della diocesi di Tolosa. Fu così che nel 1215 Domenico accompagnò Folco a Roma, dove si celebrava un grande evento della Chiesa medievale, il Concilio Lateranense IV.
Papa Innocenzo III aveva infatti compreso che la repressione armata non era sufficiente e che per strappare i fedeli alla presa delle grandi eresie occorreva un’opera di persuasione e di ricattolicizzazione capillare dei territori. I principali strumenti individuati furono il potenziamento della pratica sacramentale, con una centralità assegnata all’eucaristia e alla penitenza, e la predicazione, compito che negli ultimi secoli medievali sarebbe stato assicurato dai nuovi Ordini mendicanti. Sarebbero stati i figli di Domenico e Francesco a rinnovare il linguaggio della fede e a portare il messaggio evangelico al popolo delle città.
I due pellegrini ottennero un’udienza da papa Innocenzo III per esporgli il loro progetto e chiedere la sua approvazione. Tuttavia, il grande pontefice non confermò subito la predicatio di Tolosa, ma consigliò a Domenico di tornare indietro, parlare con i suoi compagni, fare un discernimento a scegliere una Regola già approvata: solo in seguito gli avrebbe dato la conferma che Domenico si augurava. Probabilmente il papa voleva proteggere i predicatori tolosani, mettendoli al riparo dagli inconvenienti incontrati da altri gruppi di recente formazione, come i Poveri Cattolici (un Ordine religioso costituito, sotto gli auspici di Innocenzo III, da un gruppo di valdesi di Spagna, ritornati alla Chiesa sotto la guida di Durando di Osca). Ma in gioco c’era qualcosa di ancora più decisivo e importante: Domenico e i compagni avrebbero potuto più agevolmente stabilirsi nel resto del territorio dell’antica missione contro l’eresia e contribuire in tutta la Chiesa al rinnovamento della predicazione, così come prescriveva il Concilio nella Costituzione 10.
Umberto di Romans rileggeva questo episodio in una chiave provvidenziale:
In seguito, quando il vescovo di Tolosa Fulco, di buona memoria, partì per Roma per il concilio generale, a lui si unì l’uomo di Dio Domenico, per il quale lo stesso vescovo nutriva un tenero affetto; con lui andò anche dal Sommo Pontefice Innocenzo e gli chiese di confermare, per lui e per tutti quelli che lo seguivano, un Ordine che si chiamasse e fosse dei Predicatori. Ma [il papa], a una richiesta di questo tipo, inizialmente sembrò mostrarsi un po’ inflessibile, cosa che tuttavia non accadde senza la volontà di Dio, affinché il vicario di Gesù Cristo certamente conoscesse, dalla visione che segue, quanto necessario fosse alla Chiesa universale, che egli presiedeva, ciò a cui anelava l’uomo di Dio Domenico per ispirazione divina. Come, infatti, si venne a sapere da molti [testimoni] attendibili, una notte lo stesso Sommo Pontefice, per una rivelazione fattagli da Dio, vedeva in sogno che la chiesa del Laterano minacciava all’improvviso un grave crollo, quasi si fosse disgregata nella sua struttura. Mentre egli guardava la scena tremando e lamentandosi allo stesso tempo, dalla parte opposta accorreva l’uomo di Dio Domenico e sosteneva tutto l’edificio in procinto di cadere, ponendosi sotto [di esso] con le spalle. Meravigliato dalla novità della visione e comprendendone, con la sua prudenza, il significato, senza che alcun ritardo gli fosse di intralcio, lodò il progetto dell’uomo di Dio e accettò con gioia la richiesta, esortandolo, una volta tornato dai frati e aver deliberato con attenzione insieme a loro, a scegliersi, di comune accordo, una regola già approvata su cui impiantare saldamente il progresso dell’Ordine che doveva cominciare; così, alla fine, tornato dallo stesso papa, egli avrebbe riportato la sua conferma, secondo il suo desiderio, (LM, 20).
Domenico, conscio che i suoi compagni erano troppo pochi per rispondere a questa visione allargata del loro ruolo, fu confortato, secondo quanto racconta Gerardo di Frachet nelle Vitas fratrum, da un sogno in cui vide i suoi frati andare a predicare, a due a due, in tutto il mondo.
Tornato a Tolosa, Domenico informò i compagni sul colloquio avuto con il Papa. Il canone 13 del Concilio aveva disposto che tutti i nuovi gruppi o formazioni religiose adottassero una delle regole approvate, di Benedetto, Basilio, o Agostino. Per la nuova comunità, che aveva le proprie radici nell’esperienza di un gruppo di canonici, la scelta doveva cadere naturalmente sulla “Regola di sant’Agostino”, non senza integrarla con alcuni capitoli tratti dalle Consuetudini dei Canonici regolari Premonstratensi, un ordine sorto nel XII secolo per volontà di san Norberto di Xanten. La trasformazione dell’”équipe” diocesana di predicatori in una comunità religiosa era ormai avvenuta: nulla impediva a Domenico di tornare a Roma per chiedere la conferma che gli era stata promessa.
Nel frattempo, tuttavia, Innocenzo III era morto e il nuovo papa, Onorio III, non sapeva nulla, sembra, né della predicatio tolosana, né, tantomeno del progetto coltivato dal suo predecessore al riguardo. Così Domenico, il 22 dicembre 1216, ottenne soltanto la “conferma” della comunità religiosa detta di San Romano – dal nome della chiesa tolosana nella quale la comunità alloggiava e di cui era titolare («La chiesa, costruita all’interno delle mura della città […] i frati la ricevettero nell’anno del Signore 1216. I frati erano in numero di 16 all’incirca, e costruirono un chiostro accanto alla chiesa stessa, celle per lo studio, e anche un dormitorio adatto. Nelle restanti due chiese non abitò mai nessun frate», precisa Umberto di Romans in LM, 22) – cosa che non è la conferma dell’Ordine dei Predicatori, come nella tradizione si è sempre voluto vedere…
Tornato a San Romano, anche a causa di eventi locali sfavorevoli, Domenico prese la decisione profetica di inviare i frati, a due a due, a predicare in altre città dell’Europa di allora. Racconta Giordano di Sassonia, suo successore alla guida dell’Ordine:
Invocato lo Spirito Santo e riuniti i frati, comunicò loro che il suo disegno era di mandarli tutti per il mondo, nonostante fossero in pochi; e che essi non abitassero più a lungo tutti insieme in quel luogo. Tutti si meravigliarono della sentenza da lui proferita su una tanto improvvisa dispersione; ma, poiché li animava l’autorevolezza della stessa santità, in lui evidente, accondiscesero molto facilmente, nella speranza che tutto questo sarebbe andato a buon fine (Libellus, 22).
Fu l’inizio della crescita dell’Ordine. Nella testimonianza resa al processo di canonizzazione di Bologna (1233), fra Giovanni di Spagna ricordava che Domenico, forse l’unica volta in vita sua, con un ordine perentorio impose la sua autorità ai frati che si opponevano o non capivano la sua decisione: «Non contradditemi: so bene quello che faccio». Sempre a proposito dell’anelito del santo per la predicazione, lo stesso fra Giovanni, uno dei primi compagni, riferisce che:
[Domenico] era pieno di commiserazione per il prossimo, di cui desiderava ardentemente la salvezza. Lui personalmente predicava molto spesso, ma cercava in tutti i modi di convincere anche gli altri frati ad andare a predicare; e quando ve li mandava, li pregava e scongiurava di essere solleciti della salvezza delle anime. Pieno di confidenza nell’aiuto di Dio, mandava a predicare anche gli indotti, rassicurandoli con queste parole: «Andate con sicurezza, perché il Signore vi darà le parole da dire e sarà con voi e non vi mancherà nulla» (Processo di canonizzazione di Bologna, 26).
Spesso è facile immaginare i fondatori di Ordini religiosi come persone geniali e originali guide carismatiche. Questo sembra non valere per Domenico: il santo spagnolo fu essenzialmente un uomo saggio, ricco di discernimento, che seppe valorizzare i suoi compagni, dare loro fiducia e, se necessario, capace di sottomettersi alle loro decisioni con grande umiltà e perspicacia.
Così la sua figura emerge in filigrana soprattutto nel “lavoro di squadra”, in particolare nelle Costituzioni, delle quali i frati dovettero dotarsi lavorando su di esse nei Capitoli di Bologna del 1220 e 1221 e nel Capitolo di Parigi del 1228. Anche se non tutti i testi sono suoi, nelle Costituzioni primitive c’è tutto Domenico e il vero Domenico.
La dichiarazione fondante con la quale si aprono le Costituzioni dell’Ordine si caratterizza per una certa solennità e chiarezza di espressione: «il nostro Ordine è stato istituito fin dal suo inizio per la predicazione e la salvezza delle anime» (Prologo). In un quadro di osservanze tradizionali (quali: digiuno, astinenza, silenzio, ufficio divino ecc.), emergono elementi nuovi in vista dello studio e della predicazione: l’ufficiatura corale è breve e svelta per non impedire lo studio (I, 4), i novizi leggano e meditino sempre qualcosa (I, 13), si istituisce il nuovo incarico del maestro degli studenti (II,28), per fondare un convento ci vuole un priore e un “dottore” o maestro (II, 23), vanno favoriti i frati che hanno la “grazia della predicazione” e si emanano norme per i predicatori (II, 20.31), nessuna legge è definitiva se non dopo essere stata approvata da tre Capitoli nei quali i definitori hanno pieni poteri (11, 6-8) ecc. Soprattutto l’elezione dei superiori e le grandi decisioni “a maggioranza” sintonizzano l’Ordine sulla nascente democrazia dei Comuni. Invano Domenico desiderava che l’amministrazione fosse affidata ai frati conversi (non sacerdoti) per lasciare gli altri più liberi di studiare e predicare: i frati non accettarono (PB 26) e Domenico lasciò perdere:
[…] affinché i Frati si dedicassero maggiormente allo studio e alla predicazione, il predetto fra Domenico avrebbe voluto che i conversi del suo Ordine, pur essendo digiuni di studi, nell’amministrazione e nel governo delle cose temporali fossero preposti ai frati che avevano studiato; ma i frati chierici non accettarono che i conversi comandassero loro, per paura che non capitasse ad essi quello che era successo ai monaci di Grandmont (Processo di Canonizzazione di Bologna, 26).
In compenso voleva che i frati «parlassero sempre con Dio o di Dio» e questo fu inserito nelle Costituzioni proprio riguardo ai predicatori (II,31).
Un ritratto di Domenico dal vivo lo dobbiamo alle memorie di una monaca romana: si chiamava suor Cecilia e apparteneva alla famiglia dei Cesarini. Proprio a Roma, all’età di circa 17/20 anni aveva conosciuto il Santo – che allora si avviava a terminare la quarantina – dal quale aveva ricevuto l’abito monastico:
L’aspetto del beato Domenico secondo la testimonianza della medesima suor Cecilia fu questo: statura media, fisico sottile, volto leggermente roseo e bello, capelli e barba tendenti al rosso, occhi belli, dalla sua fronte e dallo spazio tra le sopracciglia si irradiava uno splendore che attirava tutti alla reverenza e all’amore verso di lui. Appariva sempre gaio e piacevole, tranne quando era mosso a compassione per qualche afflizione del prossimo. Aveva mani lunghe e belle, una voce forte, bella e sonora, un linguaggio eloquente. Non divenne mai calvo, ma aveva la corona della rasura tutta intera e leggermente brizzolata (Cecilia romana, I miracoli di San Domenico, 14).
Per incarico di papa Onorio III, Domenico dal 1219 al 1221 radunò a S. Sisto in Roma le monache di monasteri in decadenza, dando loro una regola e un nuovo impulso. Cecilia apparteneva a questo gruppo di religiose e dopo la morte del santo nel 1223 fu trasferita a Bologna per animare il nuovo monastero di S. Agnese, dove morì nel 1290, non senza prima aver dettato a una consorella i suoi ricordi sul ministero romano di Domenico. Oltre ai miracoli, dal suo racconto apprendiamo che il santo, dopo aver lavorato tutto il giorno, alla sera veniva dalle monache «e alla presenza dei frati teneva un sermone istruendole sull’Ordine, poiché allora non avevano altro maestro che lui» (Cecilia 6). Ed arrivava anche a gesti di grande delicatezza, come quando, «tornando dalla Spagna, aveva portato quale pio regalo per ogni monaca un cucchiaio di legno di cipresso» (Cecilia 10).
Già è stato evocato il monastero di S. Agnese in Bologna, voluto da Diana di Andalò, che nel 1219 nelle mani di san Domenico aveva fatto voto di monacarsi, non senza aver prima favorito presso i parenti l’acquisto del terreno per il convento dei frati. All’inizio del suo ministero nel Tolosano, a Prouilhe, dal 1206 in avanti, Domenico aveva già convertito, come si è visto, alcune donne catare “perfette” che sotto la sua direzione continuarono la loro vita di ascesi come monache.
Nel 1218 fondò un monastero anche a Madrid, e tra i pochi scritti che di lui ci sono rimasti, c’è una lettera del 1220 indirizzata alle suore spagnole:
Molto ci rallegriamo, e ne rendiamo grazie a Dio, per il vostro impegno a condurre una vita santa e per avervi Dio sottratte ai miasmi di questo mondo. Combattete instancabilmente, o figlie, col digiuno e con le preghiere contro l’antico avversario, perché non conseguirà la corona della vittoria se non chi avrà debitamente combattuto. Voglio che d’ora in poi venga osservato il silenzio nei luoghi in cui è prescritto. Non risparmiatevi nelle penitenze e nelle veglie. Siate obbedienti alla vostra priora. Non perdetevi in chiacchiere e il vostro tempo non venga sciupato in pettegolezzi (San Domenico, Lettera alle monache di Madrid).
Durante il ministero a Tolosa Domenico fu ospitato in varie case e alcune donne si presero cura di lui, testimoniando più tardi ammirazione, simpatia e tenerezza. Si racconta che una certa Guglielmina «lo credeva vergine» e gli tesseva «la stoffa del cilicio»; inoltre «avendolo avuto commensale più di duecento volte, non lo vide mai mangiare più di un quarto di pesce o più di due tuorli d’uovo». Stesse testimonianze in Nogueza e Beceda, la quale aggiunge che Domenico non dormiva nel letto preparato, per cui «spesso lo trovava addormentato per terra, tutto scoperto. Allora lei lo copriva, ma quando tornava lo trovava in preghiera» (Processo di Canonizzazione di Tolosa, 15-17).
Sul letto di morte, Domenico raccomandò di evitare «la familiarità sospetta con donne specialmente giovani», confidò di aver conservato sempre la castità, ma concluse con un’annotazione rivelatrice della sua profonda umanità: «tuttavia confesso di non essere riuscito a liberarmi da questa imperfezione, che cioè mi toccano di più il cuore i colloqui con donne giovani che non l’intrattenermi con donne anziane».
Se il lungo processo di fondazione dell’Ordine dei Predicatori inizia, dunque a Prouilhe nel 1206, la storia dell’incorporazione definitiva delle monache all’Ordine conobbe in seguito un lungo e travagliato sviluppo durante il XIII secolo. I frati, all’inizio, fecero moltissime resistenze ad accettare di prendersi in carico l’assistenza alle monache (cura monialium). Questo giogo fraterno pareva loro, infatti, troppo pesante. Fu necessaria l’autorità dei papi e la costanza delle monache perché le cose si mettessero a posto. Come i frati, anche le monache sono sottomesse all’autorità del Maestro dell’Ordine: esse sono costitutive dell’Ordine allo stesso titolo. Non sono affatto un secondo Ordine (come si diceva una volta) o un Ordine parallelo ai Frati predicatori al femminile. Interrogato dall’energica beata Diana degli Andalò circa l’opportunità di una fondazione femminile a Bologna al tempo in cui i frati cominciavano a installarsi nella città emiliana, Domenico rispose che «la casa delle future monache» doveva essere edificata «anche a costo che la costruzione del nostro convento debba attendere».
Durante la sua permanenza a Roma, Domenico fece la conoscenza di colui che sarebbe stato il primo priore del convento di Bologna: il beato Reginaldo. Era il decano della Collegiata di Saint- Aignan ad Orléans e, nell’attesa di proseguire un pellegrinaggio con il suo vescovo in Terra Santa, si era fermato nella Città eterna: era un uomo alla ricerca autentica del Cristo. Sognava un tipo di vita consacrata alla predicazione e alla povertà. Il cardinale Ugolino gli rivelò che c’era un uomo di Dio, spagnolo, a Roma che avrebbe potuto realizzare il suo sogno… E così, dopo aver parlato con Domenico, Reginaldo decise di entrare nell’Ordine. Ammalatosi gravemente, venne guarito dalla Madonna che gli apparve mostrandogli l’abito domenicano:
[Reginaldo], dunque, giunto a Roma, viene colto da una grave malattia. Maestro Domenico andò alcune volte da lui per visitarlo e, esortandolo alla povertà di Cristo e ad entrare nel suo Ordine, ottenne il suo libero e pieno consenso ad assumere questa religione, al punto che vi si obbligò con un voto. Egli, dunque, fu liberato dal pericolo grave e quasi senza speranza della sua malattia, ma non senza la potenza di un miracolo divino. Infatti, tra i calori dovuti alle sue febbri, venne da lui in forma visibile la Regina del Cielo, madre di misericordia, la Vergine Maria. Ella gli unse gli occhi, le narici, le orecchie, la bocca, le reni, le mani e i piedi con un unguento salutare che aveva portato con sé, e aggiunse queste parole: «Ungo i tuoi piedi con l’olio santo, per prepararli al Vangelo di pace». Tuttavia, gli mostrò anche l’abito intero di quest’Ordine. Subito, dunque, egli guarì e si ristabilì così velocemente in tutto il corpo, che i medici, che avevano quasi disperato della sua guarigione, constatati i segni della sua guarigione, ne rimasero stupefatti (Libellus, 28).
Reginaldo fece professione a Domenico che lo mandò a Bologna come suo vicario, permettendogli però di compiere prima un pellegrinaggio in Terra Santa. Nel frattempo, Domenico ricevette la prima bolla di raccomandazione dei frati, datata 11 febbraio 1218, indirizzata a tutti i vescovi e prelati della Chiesa: per la prima volta, in un documento papale si trova l’espressione “fratres ordinis predicatorum”! Il nuovo Ordine era definitivamente nato. Restava ora da lavorare per renderlo più solido e diffonderlo universalmente. Fu questo il compito cui il santo fondatore si dedicò negli ultimi tre anni della sua vita. Dopo un viaggio in Francia e in Spagna (dove fondò, rispettivamente, i conventi di Narbona e di Segovia) si recò prima a Tolosa e poi a Parigi (luglio 1219), e qui esortò con vigore i frati del nascente e promettente convento di Saint Jacques non solo a riprendere il semplice stile di vita che avevano praticato a Tolosa, ma anche a rinunciare alle rendite.
Intorno alla metà di agosto dello stesso anno Domenico arrivò a Bologna, dove trovò un convento fiorente, grazie a reclute di altissima qualità che Reginaldo aveva attirato nell’Ordine con il suo fascino, la sua vita evangelica, la sua predicazione. Bisogna dire che sin dalla nascita la comunità bolognese aveva assunto una identità decisamente internazionale e, soprattutto, era stata formata dalla guida sapiente di Reginaldo, il quale aveva molto insistito sui valori dell’austerità e della povertà come irrinunciabili segni di vita evangelica. In questa comunità già matura Domenico ritenne possibile realizzare il suo ideale di mendicità conventuale, che prevedeva la rinuncia non solo alle proprietà (come a Tolosa nel 1216) ma anche a rendite e redditi. Sperava tuttavia che Reginaldo potesse fare altrettanto a Parigi, quindi decise di inviarlo a Saint Jacques. Divenutone priore, con la sua predicazione infiammò sia professori che scolari, guadagnando nuove adesioni all’Ordine, tra cui quella di Giordano di Sassonia, nobile tedesco dei conti di Oberstein, in seguito primo successore di Domenico alla guida dell’Ordine. Nella capitale francese Reginaldo, ormai molto malato, morì:
Frate Reginaldo, dunque, di santa memoria, giunse a Parigi e, con un infaticabile fervore dello spirito, predicava con la parola e con l’esempio Gesù Cristo, e il Cristo crocifisso. Ma il Signore lo sollevò presto dalla terra e, avendo vissuto poco, completò il corso di una lunga vita. Infine, poco tempo dopo, colto da una malattia e condotto fino alla morte della carne, si addormentò nel Signore, dirigendosi verso le gloriose ricchezze della casa di Dio, egli che, finché visse in questo mondo, si era dimostrato amante assiduo della povertà e dell’umiltà. Fu poi sepolto nella chiesa di S. Maria dei Campi, dato che i frati non avevano ancora un luogo proprio per la sepoltura.
Ma mi viene ora in mente che, quando era ancora vivo, frate Matteo, che lo aveva conosciuto nel secolo celebre e raffinato, gli chiese qualche volta, come se fosse pieno di stupore: «Non è per voi duro, maestro, aver preso quest’abito?». Ma egli, abbassando il viso, rispose: «Credo di non ottenere alcun merito in quest’Ordine, perché il farvi parte mi fu sempre cosa troppo gradita». (Libellus, 32-33).
Nel frattempo, l’Ordine si era diffuso nel nord Italia più rapidamente che in Francia o in Spagna: fondazioni si susseguirono a Firenze, Bergamo, Milano e a Verona. Verso la fine di ottobre Domenico si recò a Viterbo per incontrare il Papa e chiedergli delle copie della bolla di raccomandazione per le fondazioni che stava realizzando, ma anche per esporgli il piano di una missione presso i pagani del nord Europa. Fra Guglielmo da Monferrato dichiarò al processo di canonizzazione che Domenico non aveva mai abbandonato questo suo antico progetto, rinviato soltanto per portare a termine l’organizzazione dell’Ordine. Ma il papa aveva altri incarichi da affidargli e Domenico ancora una volta obbedì. Intanto le fondazioni si moltiplicavano: nel 1220, durante il primo capitolo generale tenutosi a Bologna, venne decisa la fondazione di un convento a Palencia e due religiosi scandinavi furono inviati in Svezia per predicare il Vangelo a quelle latitudini, sebbene, non si realizzasse, nell’immediato, la speranza di fondarvi un convento.
Il 25 marzo 1221 il papa rivolse ai vescovi metropoliti di tutta Europa la richiesta di mettere a sua disposizione almeno due religiosi capaci di andare a predicare ai non credenti e qualche giorno dopo, il 29 marzo, Domenico ricevette una bolla personale di raccomandazione. È evidente che si preparava ad affrontare qualcosa di nuovo, ed è molto probabile che doveva essere partecipe del progetto missionario del papa, forse addirittura diventarne la guida … E così, sorprendentemente, in una copia della bolla di raccomandazione destinata al re di Danimarca datata 6 maggio 1221, il pontefice afferma che i domenicani non si limiteranno ad essere predicatori del vangelo, ma saranno “evangelizzatori dei pagani”: finalmente, ormai in punto di morte, cominciava a concretizzarsi il giovanile sogno di Domenico canonico … I tempi e i disegni di Dio non sono quelli degli uomini, ma è nel discernimento e nell’obbedienza a questi disegni che si realizza la Sua volontà salvifica. E fu così che un frate danese venne inviato in Danimarca con lettere del papa e di Domenico indirizzate al re e all’arcivescovo di Lund. Se ne può concludere che l’obbiettivo missionario di Domenico si era intanto precisato: voleva evangelizzare i pagani in Estonia, dove i Danesi si stavano insediando. Al capitolo generale, iniziato a Bologna il 2 giugno del 1221, nacquero diverse province: furono mandati frati in Inghilterra, in Ungheria, in Danimarca, in Polonia, forse anche in Grecia, e la parola provincia acquistò il significato tecnico che avrebbe assunto più tardi per designare le circoscrizioni amministrative degli Ordini religiosi.
Al capitolo del 1220 – il primo raduno dei rappresentanti dei frati per consolidare l’apostolato e la struttura dell’Ordine – Domenico aveva implorato: «Merito di essere deposto, perché sono inutile e negligente»: era già stanco e malato, ma i frati gli chiesero di continuare. Dopo il Capitolo dell’anno seguente, Domenico intraprese con fra Paolo da Venezia un viaggio nelle marche di Treviso, dove il cardinale Ugolino dei conti di Segni, il futuro papa Gregorio IX, doveva organizzare una missione per contrastare gli eretici dell’Italia settentrionale, ma «verso la fine del mese di luglio ritornò (a Bologna) sfinito per il gran caldo» e si ammalò gravemente. Durante l’agonia, dopo aver pregato con la preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17), proseguì: «Vi sarò più utile e fruttuoso dopo morto, di quanto non sia stato in vita» (PB 8) e alla domanda sul luogo del seppellimento, rispose: «Sotto i piedi dei frati». Spirò mentre i frati pregavano invocando: «Soccorrete Santi di Dio, accorrete Angeli dei Signore, prendete la sua anima e offritela in cospetto dell’Altissimo (PB 33). Era il 6 agosto 1221. Il cardinale Ugolino presiedette le esequie.
Giordano narra così la morte di “maestro Domenico”:
Nel frattempo, maestro Domenico, avvicinandosi la fine del suo peregrinare, a Bologna cominciò ad ammalarsi in modo grave; e, dal letto della sua malattia, convocò dodici tra i frati più avveduti e cominciò a esortarli ad avere fervore, a promuovere l’Ordine e a perseverare nella santità […] Prima di morire, ai frati disse anche, con fermezza, che lo avrebbero ritenuto più utile da morto che non da vivo. Di certo, conosceva colui al quale aveva affidato il deposito delle sue fatiche e della sua vita feconda; e non aveva alcun dubbio che, per l’avvenire, fosse in serbo per lui una corona di giustizia, ricevuta la quale sarebbe tanto più potente nell’impetrare, con quanta maggiore sicurezza sarebbe entrato nelle potenze del Signore. Il tormento della malattia si aggravò maggiormente, e così soffriva di febbri e di dissenteria. Infine, quell’anima santa fu liberata dalla carne, e andò al Signore che l’aveva donata, commutando la sua triste dimora con la consolazione perenne di una abitazione celeste, (Libellus, 48).
Sempre il beato Giordano riferisce una visione avuta in sogno dal beato Guala da Bergamo, allora priore a Brescia, nella quale vide il Santo salire in cielo, ove era atteso da Gesù e dalla Santa Vergine:
Il giorno stesso della sua morte, alla stessa ora, frate Guala, priore di Brescia, in seguito vescovo di quella città, coricatosi nel luogo in cui si trova il campanile dei frati di Brescia, si era addormentato di un sonno leggero, e vide come un’apertura nel cielo, attraverso cui scendevano due candide scale. Cristo reggeva, tenendola per l’estremità superiore, una delle due, sua madre reggeva l’altra; degli angeli le percorrevano entrambe, salendo e discendendo. Dunque, in fondo alle due scale, nel mezzo, era stata posta una sedia, e sulla sedia sedeva uno che, come un frate dell’Ordine, aveva la faccia coperta dal cappuccio, come è usanza di seppellire i nostri morti. Cristo Signore e sua Madre, poi, tiravano su a poco a poco le scale, finché colui che era stato posto in basso alle scale giunse fino alla sommità. Finalmente ricevuto in cielo, in un immenso splendore, col canto degli angeli, quella brillantissima apertura nel cielo fu chiusa, e non apparve più nulla. Il frate, dunque, che aveva avuto questa visione, pur essendo molto ammalato e debole, recuperate all’improvviso le forze, in tutta fretta si mise in viaggio per Bologna, dove sentì dire che lo stesso giorno e alla stessa ora del giorno era morto il servo di Cristo Domenico, secondo quanto appresi dal suo stesso racconto (Libellus, 49).
Il 24 maggio del 1233 il corpo fu traslato in una sede più dignitosa e, aperto il sepolcro, «ne uscì un odore forte, soave e dilettevole, di qualità sconosciuta» (PB 34).
Secondo un religioso domenicano contemporaneo
San Domenico non fu e non è un “santo dei miracoli”.
Certo, le fonti contemporanee e posteriori ci raccontano i suoi miracoli: la risurrezione di un giovane e di un bambino a Roma, una pioggia diluviante allontanata con un segno di croce, la comparsa di personaggi celesti a sfamare i frati dopo la sua preghiera, diverse guarigioni ecc.
Ma «più dei miracoli, c’era in lui qualcosa di più fulgido e magnifico» (Libellus 103) e cioè il suo carisma, le sue virtù, la sua vita.
Il card. Ugolino di Anagni conobbe di persona Francesco e Domenico e, divenuto papa con il nome di Gregorio IX (1227-1241), li canonizzò entrambi.
La Bolla di canonizzazione di san Domenico (Rieti 3.7.1234) afferma che Dio gli diede «la fortezza della fede e il fervore della divina predicazione». Egli, «non allontanandosi mai dal ministero e dal magistero della Chiesa militante» e «divenuto un solo spirito con Dio, generò molti con il Vangelo di Cristo, ottenendo già in terra il nome e l’ufficio di patriarca».
Per chi lo conobbe, Domenico «aveva una volontà ferma e sempre lineare e un cuore irremovibile nelle cose che aveva giudicato secondo Dio ragionevoli a farsi» e l’equilibrio dell’uomo interiore «si manifestava fuori nella bontà e nella ilarità del volto» (Libellus 103).
«Di notte nessuno più di lui assiduo nelle veglie e nelle preghiere, di giorno nessuno più socievole di lui (nemo communior) con i fratelli, nessuno più allegro» (Ivi, 104-105).
San Domenico «estendeva la sua carità e compassione non solo ai fedeli ma anche agli infedeli e ai pagani e perfino ai dannati dell’inferno e piangeva molto per essi» (Processo di Canonizzazione di Bologna, 11). Da qui nacquero l’apostolato e la preghiera notturna espressa nel grido: Signore, che ne sarà dei peccatori?» (ivi, 18).
Tutto questo mantenendo l’assiduità del contatto con le Scritture, l’adesione alla sana dottrina (p. 4) e un buon rapporto con la Chiesa istituzionale.
San Domenico fu soprattutto un «umile ministro della predicazione / Predicationis humilis minister», come si firmò all’inizio del 1215.
Il Concilio Vaticano II ha ricordato che «il popolo di Dio viene adunato innanzitutto per mezzo della parola del Dio vivente» (Presbyterorum Ordinis 4). La predicazione si era diradata e Domenico ebbe il dono di riportarla alla luce. Se iniziò a predicare in funzione antieretica e desiderò evangelizzare popolazioni pagane (Ivi, 12, 32), di fatto il suo ministero si estese a tutto il popolo fedele, come a Bologna quando predicava «agli studenti e alle altre persone buone» (Ivi, 36).
In san Domenico la Parola maturò nei Sacramenti.
“Predicazione/Confessione” (Ivi, 33): san Domenico si confessava e confessava gli altri consolandoli e fortificandoli (Ivi, 5, 39, 46, 48, 36-37). San Domenico celebrava – cantava – la Messa tutti i giorni e quando poteva anche in viaggio, versando abbondanti lacrime durante il canone e al Padre nostro (Libellus 105; Processo di Canonizzazione di Bologna, 3, 21, 38, 42, 46). Questo perché la Parola si compie ed è compresa nell’Eucaristia, come insegna il cammino dei due discepoli di Emmaus (Lc 24, 27-31).
Il Breviario di Belleville è un manoscritto miniato risalente al 1323-1326 conservato presso la Biblioteca Nazionale di Francia.
La prima menzione del Breviario risale al 1380 quando nell’inventario di Carlo V è menzionato con questo nome. È stato indubbiamente realizzato per Giovanna di Belleville, moglie di Olivier IV de Clisson. Quest’ultimo, accusato di tradimento, fu giustiziato a Parigi nel 1343 e tutti i suoi beni furono confiscati a beneficio del re di Francia. Carlo VI regalò il prezioso Breviario a suo genero, Riccardo II d’Inghilterra e il suo successore, Enrico IV lo donò a Jean de Berry, probabilmente su richiesta di quest’ultimo. A sua volta, il duca di Berry lo lasciò in eredità a sua nipote, Maria di Francia la quale si era fatta monaca nel convento domenicano di Poissy; essendo il manoscritto ad uso dei Domenicani, ne era indicata la donazione. Il manoscritto rimane in possesso del convento fino alla Rivoluzione Francese, quando venne trasferito nella Biblioteca Nazionale di Parigi.
Riportiamo di seguito alcune miniature che illustrano l’Ufficio liturgico del Santo Padre Domenico:
Il sogno di Innocenzo III: San Domenico sorregge
la Basilica del Laterano pericolante.
San Domenico predica agli eretici.
I santi Pietro e Paolo in visione affidano a san Domenico la missione di predicare
(notare il bastone da viaggio e il libro dei Santi Vangeli).
La Traslazione del corpo di san Domenico: Bologna 24 maggio 1233.
Due frati portano in processione il reliquario con i resti del santo,
mentre due malati, sotto, implorano la guarigione.